"La lingua salvata" di Elias Canetti: l’esistenza della guerra è il fallimento della religione - OUBLIETTE MAGAZINE

2022-05-25 09:03:46 By : Mr. Sam Qu

O ora o mai più! Mi viene da dirlo quando, leggendo un libro (e non sto parlando di quelli banali che, in fondo, ed è un atto di fede il mio, non esistono) rimango come sospeso prima di tentare di reagire per iscritto. Mi capita ogni qual volta mi è tra le mani uno di quei precisi ordigni a orologeria, che paiono libri, ma che potrebbero scoppiare da un momento all’altro.

Sto leggendo La lingua salvata di Elias Canetti che mi obbligherebbe a commentare ogni riga letta, se qualcosa alla fine, miracolosamente, non me lo impedisse. Finora mi sono limitato a sottolineare alcuni passi. Ed è giunta l’ora di andare a raccoglierli.

“… nella stessa Rustchuk vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue. Oltre ai bulgari, ce spesso venivano dalla campagna, c’erano molto turchi, che abitavano in un quartiere tutto per loro, che confinava col quartiere degli ‘spagnoli’, dove stavano noi. C’erano greci, albanesi, armeni, zingari. Dalla riva opposta venivano i rumeni, e la mia balia, di cui non ricordo il nome, era rumena. C’era anche qualche russo, ma erano casi isolati.”

Elias è, ovunque può, chiaro nei particolari e ogni sua ipotetica amnesia è indubbia e significativa.

“Tutto ciò che ho provato e vissuto in seguito era sempre già accaduto a Rustchuk. Laggiù il resto del mondo si chiamava Europa e, quando qualcuno risaliva il Danubio fino a Vienna, si diceva che andava in Europa. L’Europa cominciava là dove un tempo finiva l’impero ottomano. La maggior parte degli ‘spagnoli’ erano ancora cittadini turchi…” – quando inizio a estrapolare da un testo di Elias è un fatto che poi faccio fatica a troncare il suo discorso. Dopo esserci riuscito, sintetizzo il resto: questi spagnoli sono ebrei emigrati a forza dalla Spagna, per cui erano rimasti con quella lingua madre, ovunque andassero: “alcune parole turche erano entrate nella loro lingua, ma erano chiaramente riconoscibili come tali e le cose che esse significavano potevano essere dette quasi sempre anche con parole spagnole.”

Sua madre si vantava di essere “… de buena familia”, ed Elias non poteva non rimarcare “lo stridore” che questa frase classista produceva quando si univa alla di lei passione per la “letteratura delle grandi lingue europee”, che le aveva indicato “il contenuto essenziale della propria esistenza”.

Elias, pur essendo consapevole che “fu lei a schiudermi tutte le porte dell’intelletto” si accorgeva di “quella contraddizione”. Lui gliene parlò varie volte “in ogni periodo della mia giovinezza”, rinfacciandole il fatto “innumerevoli volte, senza che ciò le facesse la minima impressione.” Questa donna mi colpisce perché è quello che si definisce una persona vera, che non te la manda a dire, ma che probabilmente cova in sé più di un conflitto di natura psichica, che mai riuscirà né forse ci terrà a risolvere: “proprio questa angustia mentale, che in lei non capivo, mi portò assai per tempo a schierarmi contro ogni pregiudizio di nascita.”

Ebrei economicamente floridi: “la casta alla quale mia madre si vantava di appartenere, a parte la sua origine spagnola, era una casta del denaro. Ho imparato a conoscere tutti i passaggi che dalla rapacità portano alla mania di persecuzione.” Un’ulteriore confessione: “Ho passato la parte migliore della mia esistenza a mettere a nudo le debolezze dell’uomo, quale esso ci appare nelle civiltà storiche. Ho analizzato il potere e l’ho scomposto nei suoi elementi con la stessa spietata lucidità con cui mia madre analizzava i processi della sua famiglia. Ben poco del male che si può dire dell’uomo e dell’umanità io non l’ho detto. E tuttavia l’orgoglio che provo per essa è ancora più grande che solo una cosa io odio veramente: il suo nemico, la morte.”

La scrittura di Canetti non è sempre il frutto di una sintesi (il che è una mezza antifrasi): a fatica si riesce troncare a metà una rivelazione. È pensabile che quel cespuglio ardente potesse consegnare metà delle tavole, promettendo che le rimanenti sarebbero arrivate in un tempo successivo, magari al termine di uno spot pubblicitario? Vorrei sentire a proposito l’opinione di Haim Baharier.

“Fra di loro i miei genitori parlavano tedesco, lingua di cui io non dovevo capire nulla. Con noi bambini, come coi parenti e con gli amici, parlavano spagnolo, che era la nostra vera lingua quotidiana.” – qualcosa di simile capitò a me, poiché i miei parlavano tra di loro in dialetto arşân, ma ci tenevano che noi conoscessimo l’italiano, che era la lingua ufficiale e che a scuola era l’unica consentita. Ricordo ancora quell’assurdo cartello nell’atrio dell’edificio scolastico che vietava l’uso del dialetto. Però i miei non tenevano nascosta la loro lingua madre, sopratutto mia mamma quando era inasprita (eufemismo) con me per una mia marachella.

Elias impara il bulgaro grazie alle “ragazzine che lavoravano in casa”, ma avendo lui lasciato la sua patria natia a sei anni, presto lo dimenticò (almeno a livello conscio), anche se “tutti gli eventi di quei miei primi anni si svolsero dunque in spagnolo o in bulgaro. In seguito mi si sono in gran parte tradotti in tedesco”. La “fraseologia” è rimasta “spagnola”, ma tutto ciò che era bulgaro, “come appunto le favole, me le porto in testa da tedesco.” – ce n’è abbastanza per rimanere dislessici! Anche se non mi pare sia il caso del nostro autore, a cui è giunto il momento di dare del tu.

Un giardino “si ergeva” un “grande gelso con i rami bassi sui quali era facile arrampicarsi.” – e tua madre ti indicò “Il suo nascondiglio da ragazza: lì aveva l’abitudine di rifugiarsi quando voleva leggere indisturbata. Si appollaiava lassù con il suo libro e se ne stava zitta zitta, ed era così brava a nascondersi che da sotto nessuno la vedeva, e il libro che aveva in mano le piaceva così tanto che non sentiva neppure quando la chiamavano; fu lassù che lesse tutti i suoi libri.” – e questo mi fa venire in mente qualcosa. Anche io e un certo Carlino passavamo interi pomeriggi seduti su un ramo di un ciliegio. Ma ora stavo pensando a un giovane nobile. Sotto, “la gente stava raccolta tutta quanta insieme. Non vedevo né mio pare né mia madre, non vedevo singolarmente nessuno di coloro che formavano la mia esistenza. Li vedo solo tutti insieme, e se non avessi in seguito usato tanto spesso questa parola, direi che li vedo come massa: una massa stagnante in attesa.” – di cosa? Del tuo io in fieri, che poi alla fine l’ha detta ancora questa parola?

“Delle lingue si discuteva spesso, solo nella nostra città si parlavano solo sette o otto lingue diverse e tutti capivano qualcosa di ciascuna; soltanto le ragazzine che venivano dai villaggi non sapevano che il bulgaro e per questo erano considerate stupide.” – com’è consuetudine fra gli umani, a qualunque etnia appartengano, che giudicano tali chi non è in grado di capirli. Il periodo bulgaro sta ora terminando, e la tua famiglia si sta trasferendo a Manchester, dove tuo padre lavorerà con il fratello della moglie. Il periodo bulgaro va dal 1903, due anni prima della tua nascita, fino al 1911. A Manchester tuo padre morirà, per rinascere ogni volta nella tua memoria, per poi svanire di nuovo se tu pensavi ad altro: “… giocavo poco, parlavo piuttosto con la tappezzeria. I molti cerchi scuri nel disegno della tappezzeria li vedevo come persone. Inventavo una quantità di storie in cui esse figuravano da protagonisti, qualche volta ero io a raccontargliene, ma qualche volta anche loro partecipavano al gioco; comunque non mi stancavo mai di questi personaggi della tappezzeria ed ero capace di stare ore e ore a discorrere con loro.” – a volte, Elias, finisci per narrare di me, come se mi conoscessi da una vita, dalla tua vita. Nel bagno della mia infanzia c’erano delle piastrelle con delle macchie nere e grigie, che formavano strane figure, prive di senso, che non fosse quello che di volta in volta, creavo io: “non mi stancavo mai di questi personaggi della tappezzeria ed ero capace di stare ore e ore a discutere con loro.” Quando venisti scoperto dalla governante, che lo disse ai tuoi, fosti “costretto a fare sempre le passeggiate insieme agli altri, in casa pensarono che non mi facesse bene restare da solo per tutto quel tempo…” – per cui, dici, “mi abituai a ripetere le mie storie in silenzio” – e questo è un punto fondamentale, credo, della tua evoluzione creatrice. Scrivere, creare con le parole e coi segni, è sempre un momento di solitudine e di ribellione, che Maimonide apprezzerebbe: ogni atto di fede contiene necessariamente un segreto in parte inconfessabile, ché altrimenti perderebbe tutto il senso nella Rivelazione. Non è un vano nascondere, ma un dissimulare quel che è fin troppo manifesto. E questo è il motivo che non c’è una religione, almeno fra le maggiori, che non contenga dei Misteri insolubili. E qualora non ci fossero, occorrerebbe rinvenirli al più presto.

“Forse, di tutte le cose del mondo, nulla si evolve e si trasforma meno della paura. Quando penso ai miei primi due anni, per prima cosa ritrovo le paure di cui essi abbondavano in maniera inesauribile. Molte le ritrovo soltanto ora, mentre in altre, che non troverò mai, risiede presumibilmente il segreto che mi desiderare una vita interminabile.” – ti do una notizia non triste, ma neppure allegra: mamma diceva che tótt à fîn. Nulla è eterno: nulla di nuovo sotto il sole, tutto è vanità, etc etc…

Tuo padre è morto, ma ora ricordi quando lo vedesti fare la pipi “e il getto e il membro mi erano apparsi di una grandezza inaudita” – e questo mi fa pensare che, talvolta, papà e io (avrò avuto cinque o sei anni) orinavamo insieme. Anche a me il suo pene pareva incommensurabilmente immenso, rispetto al mio. E dentro di me pensavo: un giorno anch’io l’avrò così.

Dividi ogni sezione in tanti capitoletti senza numero, ognuno col suo titolo. Il prossimo è La morte di mio padre. L’ultima versione. Tuo padre muore, tua mamma urla come una matta: “Con quel suo grido la morte di mio padre entrò dentro di me e non mi ha mai più abbandonato.” Tua madre ti crea varie versioni della sua morte: “Forse un giorno potrò mettere tutte queste versioni sulla carta, in modo completo. Ne verrebbe fuori un libro, un libro intero, mentre ora sto inseguendo alcune tracce.” – vai a osta, dicono a Reggio, a uosemo, dicono ad Amalfi: osmòs è in greco l’odore che lascia la selvaggina, che a seguirlo è come usare una bussola quando si teme di perdersi. O come quando si è sott’acqua e non si capisce più qual è il sopra e il sotto: l’unico modo è vedere dove risalgono le bollicine d’aria. Se ci si è persi, in quel modo ci si ritrova sempre.

“So per certo che con quest’ultima versione la mamma mi ha detto la verità, la sua verità.” – l’ultima finzione in cui è lecito credere, l’ultima rivisitazione del Mistero. Quando poté leggere il tuo Die Blendung (Auto da fé), tutta orgogliosa, “ora comprendeva, così disse, la battaglia che io avevo combattuto per la mia libertà, ora mi riconosceva il diritto a questa libertà, sebbene quella mia lotta le avesse procurato grandi sofferenze. Il libro che aveva letto era carne della sua carne e in me si riconosceva pienamente, gli uomini li aveva sempre visti come li descrivevo io, esattamente così avrebbe voluto scrivere lei stessa.” – e il fatto che si inchini davanti a te dimostra che lei non era una scrittrice, ma solo la madre di uno scrittore, come, secondo la religione cristiana, la Madonna non è Dio, ma colei che l’ha creato. L’ultima versione era la più credibile, ma non ha senso definirla come la più probabile: questo concetto riguarda la scienza, dalle stelle più giganti alle particelle più microscopiche, non una tale forma di religione. In quel momento avvenne il miracolo: “ciascuno di noi rappresentava per l’altro tutto ciò che rimaneva di mio padre. Inconsapevolmente interpretavamo entrambi la parte di lui e con la sua dolcezza ci facevamo del bene a vicenda.”

Anche per questo decide d’insegnarti il tedesco, che era per lei “la lingua dell’intimità e dell’affetto.” – che ti insegna con un metodo duro, inflessibile, negandoti la lettura e, al momento la scrittura. Lei te lo dice e tu lo devi imparare, come se fosse una sequela di ordini che non vanno né discussi né commentati: “il fatto che poi sia riuscita nel suo intento ha determinato la natura molto profonda del mio tedesco, che fu per me una lingua madre imparata con ritardo e veramente nata con dolore. Ma non restammo al dolore, ad esso seguì subito dopo un periodo di felicità che mi ha legato indissolubilmente a questa lingua. Anche la mia inclinazione a scrivere dev’essere stata precocemente alimentata da questa vicenda, perché proprio per poter imparare a scrivere mi ero conquistato il libro, e il mio repentino miglioramento era incominciato appunto quando avevo imparato a scrivere le lettere dell’alfabeto tedesco. La mamma non ammetteva assolutamente che a causa del tedesco io trascurassi le altre lingue, per lei la cultura non era altro che la letteratura di tutte le lingue che lei stessa conosceva, ma la lingua del nostro amore – e che amore è stato! – fu il tedesco.”

Elias, non posso che pensare al mio caso umano, dopo aver ascoltato il tuo. Io parlo abbastanza bene l’arşân, ma ogni tanto faccio qualche errore. Nessuno me l’ha insegnato. Dopo che è morta mia madre, quând la so ora l’ë gnûda, ho preso coscienza della mia ignoranza di quel vernacolo, dopo di cui ho cominciato a studiarlo un po’, grazie anche ad alcuni studi come quelli di Denis Ferretti (autore di una Grammatica del dialetto reggiano). Il libro che più consulto a casa mia (e che più mi manca quando sono fuori città) è il Dizionario Reggiano-Italiano dei compianti e meritevoli autori Luciano Serra e Luigi Ferrari.

Intanto siamo arrivati al 1913 e tu, con la tua famiglia, ti sposti a Vienna. Tuo nonno paterno, di cui eterni il nome, è un tipo particolare, che osò maledire tuo padre quando egli, contrastando il suo volere, emigrò in Inghilterra, dove morì poco dopo. Elias Canetti senior si vantava di conoscere ben diciassette lingue, ma in realtà ne conosceva bene solo una, lo spagnolo, limitandosi alla conoscenza di poche parole per quanto riguardava le altre. Tua madre e lui non si accettano reciprocamente: lei ogni tanto gli ricorda, gridando, che ha maledetto un figlio che poco dopo è morto. Egli diventa allora una furia e se ne va via urlando, per tornare a desinare da voi, come se niente fosse, la volta successiva.

“Io ero permeato di una fiducia cieca nella mamma, i personaggi di cui lei mi parlava e su cui mi interrogava sono a tal segno diventati parte integrante del mio mondo che non riesco più a scinderli gli uni dagli altri. Tutti gli influssi che ho subito successivamente son in grado di rintracciarli uno per uno. Questi, invece, formano un’entità unica che ha una sua entità e uno spessore indivisibili.”

Si nasce scrittori, o lo si diventa? Io non credo nell’Unico e Inderogabile Fato, ma nel Destino di ognuno di noi sì. A sette anni stavo andando a catechismo quando attraversai la strada sulle strisce pedonali. Una macchina m’investì. Se fossi morto sarei andato drétt in Paradîş, invece ebbi quel provvidenziale colpo di reni che, a detta di chi assistette alla scena, mi salvò la vita e mutato il mio destino, forse anche quello che mi attende in quell’eventuale al di là.

“Da allora, da quando avevo dieci anni, è per me una sorta di articolo di fede credere che sono fatto di molte persone, della cui presenza in me non mi rendo assolutamente conto.” Pare che, un attimo prima del mio incidente, un passante abbia gridato qualcosa, e che questo mi abbia permesso di evitare in una certa misura l’impatto, per cui me la cavai con un buchetto su un lato della nuca e l’omero sinistro rotto. Da allora, probabilmente, ho deciso di prestare l’orecchio alle voci altrui, oltre che alle mie.

E alle tue in primo luogo, ben inteso; nel capitoletto Lo scoppio della guerra, colgo e vorrei tanto diffondere una frase di tua mamma: “un russo è un essere umano come te e come me.”

Leggi alcuni classici greci e dici (lo so, sarebbe più giusto dire che scrivi, anzi, scrivere che scrivi: ma più m’attorciglio su questo pensiero e più mi convinco che fra il dire e lo scrivere e gh sia al fîl dla pulèinta, ci sia il filo della polenta: quasi nulla)…

Dici, stavo dicendo, che il tuo atteggiamento “dipendeva molto dai nomi, c’erano personaggi che mi erano antipatici esclusivamente per il nome che portavano e altri che invece amavo proprio per il loro nome; prima ancora di conoscerne la storia” – il che mi fa pensare a quello che mi scrisse/disse Haim Baharier in Il cappello scemo: arca in ebraico è tevà, parola. Il nostro nome è il suono che ci accompagna per più tempo, la prima che ci viene donato dai genitori, quello che ci viene lanciato più spesso.

Le parole conducono dove il pensiero ti vorrebbe portare. Salgari con la parola si recò a Mompracem, Verne addirittura salì sulla Luna e al centro della Terra. E qual è, dunque, la parola che più condizionerà la nostra esistenza, se non il nome: nomen omen, dicevano i latini. Conobbi tre fratelli campani: Crocefisso, Crocefissa e Addolorata, che, insieme, convivevano in religiosa armonia. A quei personaggi, ognuno col suo nome-destino, “potevo andar loro incontro con una libertà ai limite del meraviglioso, non riecheggiavano nulla che io già non conoscessi, non si mescolavano a nulla, si presentarono come figure pure e astratte e tali rimasero…”.

Ora mi fai un contro-spoiling, nel senso che non so capire l’assist, per cui il pallone se ne esce per l’ennesima volta dal perimetro di gioco: parlando di Ulisse, “senza che nessuno se ne accorgesse, egli finì in Die Blendung (Auto da fé), che altro non è se non una testimonianza della mia profonda dipendenza interiore da Ulisse. Una dipendenza assolutamente completa e che oggi mi sarebbe facilissimo rintracciare in tutti i particolari: infatti so ancora perfettamente in che modo Ulisse stabilì la sua influenza sul ragazzino decenne, che cosa lo colpì immediatamente e lo colmò di inquietudine.” – quando ero piccolo e volevo sapere qualcosa d’arcano, per esempio che fine avesse fatto la mia cerbottana con cui sparavo missili di carta, oppure che ne fu di Atlantide (c’entrava o no l’impero Azteco con tutti i suoi nomi con la sillaba tla?), mi rivolgevo a Lui e gli dicevo: quando sarò morto me lo dirai, aggiungendo per prudenza un ricordati di ricordarmelo. Ora che Lui è morto, risorto e un po’ sparito dalla circolazione, chiedo a te: se ci troviamo in quel bistrot celeste, ne riparliamo ancora un po’?

Ora siamo giunti finalmente a quel Viaggio in Bulgaria, che mi ha consentito di scrivere fin qui: O Rutschuk o morte! O ora o mai più!

Stai leggendo Les Misérables di Victor Hugo, e noti che le pagine riportano “ancora le macchie delle more” che tua madre “aveva mangiato leggendo”. E la tua consanguinea ti racconta che, su quell’albero, lei continuava “a leggere per tutto il pomeriggio”, lontana dai grandi, in quel suo refugium peccatorum. Il mio pensiero va sempre più a Cosimo Piovasco di Rondò, il Barone rampante, di cui il fratello Biagio raccontò a Italo Calvino quella storia che quest’ultimo eternò con la sua scrittura mirabile. Io amo i miei cari, ma essi quasi cessano di esistere mentre leggo e scrivo (quasi, ho detto!): che sono i due momenti del medesimo atto. A Reggio diciamo che tótt i cajòun a gh ân la só pasiòun. Ma nel momento della passione, tu devi essere solo col tuo Unico Amore. Che può anche essere incorporeo: ma che dev’essere assoluto e libero. Tu devi essere Lui e Lui dev’essere te. Tu, Italo e il vostro minuscolo fratellino arşân, noi tre e infiniti altri, amiamo ognuno la propria immagine di ragazza. Speriamo che siano almeno cugine germane!

Vienna: “Alla mamma sarebbe piaciuto essere sepolta lì, diceva. Aveva trentun anni, ma io non mi meravigliai  affatto di quei pensieri e della sua passione per le tombe. Quando eravamo noi due soli io accoglievo in me come la cosa più naturale del mondo tutto quello che lei pensava, diceva o faceva. Io sono fatto delle frasi che mia madre mi disse in momenti come quelli.” – lo stesso vale per me. Non so però quale dei due genitori abbia più amato, né se ha senso pormi tale questione. Entrambi, ma soprattutto mia mamma mi ha donato la parte maggiore delle parole che, dentro di me, io onoro come se fossero i Salmi ella Bibbia. Propongo al mio attuale lettore, a te specialmente, il detto che più di altri ho conservato come si fa con un inclito tesoro, che pochi conoscono, anche fra chi è dotto in arşân: pianşer fa trî e réder fa trî: se non cambia nulla, è meglio riderci su. Ehi! Haim Baharier! Non è che quel detto sia di origine ebraica?

Ora la tua famiglia parte per Zurigo, dove, una sera senti tua mamma che grida: “Ma non lo quero casar!”, cioè “Ma non lo voglio sposare!”. Per cui ti alzi, e ti presenti, furioso, “in camicia da notte in mezzo alle tre donne”, mamma, zia, nonna, “che conoscevo solo come una donna mite e debole, dalla quale non avevo mai udito una sola parola che mi avesse fatto impressione”, la quale “esclamò arrabbiata: ‘Ma tu perché non dormi? Non ti vergogni di origliare alle porte?’. ‘No, non mi vergogno! Voi volete abbindolare la mamma a forza di chiacchiere! Io non dormo. Lo so che cosa volete. Non dormirò mai.’” E qui si manifesta il tuo carattere un po’ contraddittorio: solitamente pacifico e a volte riottoso in maniera violenta. Tanto che minacci di gettarti dalla finestra qualora tua madre accetti di sposarsi e aggiungi: “La minaccia era terribile e io facevo sul serio, so con assoluta certezza che mi sarei buttata dal balcone.”

Oggi ho telefonato alla mia amica Claretta Ferrarini, cultrice del dialetto fidentino, perché è il suo compleanno. Fra le altre cose, mi dona una banalità che io reputo sacra: i dialetti sono bellissimi. Tutte le lingue lo sono, anche quelle che si ignorano: così mi capita talvolta di pensare quando m’imbatto in magrebini o in slavi che ciarlano fra loro. Borges parlava del racconto unico che era la somma di tutti gli altri, dei sentieri montani che recano tutti alla medesima vetta. Ho sempre amato mutare a mio piacimento le allegorie altrui. Lo stesso vale per le lingue umane, dall’arşân al sanscrito, da cui anch’esso deriva. C’è chi ha osato affermare (e per me è un eroe) che il linguaggio umano sia nato dal voler imitare le melodie intonate dagli uccellini. Chissà! Per me scrivere è salvare. E mi sa che sia lo stesso per te! Con questo spirito continuo la mia lettura, perché so che mi spingerà a raccogliere qualche essere sconosciuto, che sta dibattendosi tra le onde di quest’assurdo mare, e che prima o poi identificherò come una parte di me.

“La mamma, che vegliava sulla purezza della nostra lingua e reputava degne di considerazione solo le lingue che avevano una grande letteratura, era preoccupata che io potessi rovinare il mio ‘puro’ tedesco, e quando, nel mio entusiasmo, tentai di difendere il dialetto che mi piaceva, si adirò molto e disse: ‘Non ti ho portato in Svizzera, per farti disimparare tutto quello che ti ho insegnato sul Burgtheater! Vuoi forse parlare come la signorina Vogler?” Ogni volta che sento la parola entusiasmo, m’entusiasmo, io che non so se credo in dio, ma quell’essere en-theos quasi m’inebria. E mi dico: se in quest’angusto patio mi sembra di essere diverso, immaginiamoci come mi sentirei in quell’infinito Altrove!

Decidesti di esercitarti sempre di più nel dialetto zurighese, e quello “fu il primo segno di indipendenza da mia madre” e “cominciai a sentirmi un ‘uomo’.”

Tua madre è mitica, ma è anche un’assurda rompiballe. Hedi, “la ragazza di casa, corresse con aria innocente un errore che George, il mio fratellino, aveva fatto in una frase inglese”, rivelando in tal modo di poter ascoltare le vostre ragioni. Agli occhi di tua madre questa era la prova che Hedi era una spia del governo locale e, dopo poco tempo, fu spedita via, come si fa con chiunque non è legittimato a soggiornare nel tuo dominio.

Intanto nelle storie che ti racconti “succedevano cose emozionantissime”, e cominciasti a narrarle ai tuoi due fratellini, “che aspettavano avidamente la puntata seguente” (così facevo io con mio figlio). Erano storie di guerra e prevedevano un unico finale: “tutti i combattenti che erano morti, anche quello del partito dei cattivi che non voleva smetterla di fare la guerra, si rialzavano dal campo di battaglia ed erano di nuovo vivi e vegeti.”

Tu vedi i tuoi insegnanti “come persone singole o come figure tipiche”, per cui ti senti in debito con loro. Io mi sentivo angustiato dalla loro autorità e non li ho mai amati. Ora che, presumibilmente, sono morti oppure vecchissimi, mi dichiaro pronto a ricordarli, specie alcuni, con affetto. Non subito, magari domani. No: subito! Altrimenti non lo farò mai! Perché, come scrivi tu: “quel continuo fluttuare fra individui e figure tipiche è una delle cose che più stanno a cuore dei poeti.”

Per giustificare e forse amare tua madre mi basta questo fatto: “Una sola cosa contava per lei, chi veramente voleva la fine della guerra. Lei, che veniva da una delle più ricche famiglie della Bulgaria, difendeva Lenin. Non riusciva come gli altri a vedere in lui un demonio, e lo considerava piuttosto come un benefattore dell’umanità.” – in quanto aborriva la guerra. Che poi lei sia un essere contraddittorio (anche tu lo sei, ammettilo), lo si scorge in questa sua frase: “Farei fucilare chiunque si opponesse alla fine della guerra. Sarebbe un nemico dell’umanità.”

Lei leggeva fino a tardi e tu la imitasti a modo tuo: “accendevo la mia minuscola lampadina tascabile e mi mettevo anch’io a leggere il mio libro sotto le coperte. Quello era il segreto che nessuno voleva conoscere…” – anch’io amavo starmene con la testa sotto, dissimulato dal mondo, in cerca del mio minutissimo, fragile e inquieto io.

Come siamo diversi io e te. Di alcuni libri avevi fatto una quarantina di letture. Io non riesco a entrare in quest’ottica. Ci sono troppi scrittori, troppi libri, troppi pesci nel mare e troppi abitanti in questo cosmo! Ti prometto che quando finirò di leggere tutto quello che è stato scritto, ritornerò a prendere in mano il primo che ho conosciuto: Pinocchio. Intanto mi stai interessando a Strindberg, che tanto celebra tua mamma, nonché quello Scott che ti fa dire: “Ma quella non è storia! Sono soltanto degli stupidi cavalieri con le loro stupide armature!”  

Tua madre, secondo quanto dici: “Non c’è da meravigliarsi che i momenti in cui l’amavo di più fossero quelli in cui, stando zitto, mi sentivo alla sua altezza.” – mentre io amavo risponderle, spesso male, e talvolta la feci piangere. È successo, e c’è poco da fare. L’importante è che madre e figlio in fondo al loro cuore si amino.

“Allora non sapevo ancora che cosa è la vastità, eppure lo intuivo: il poter contenere in sé moltissime cose, anche tra loro contraddittorie, sapere che tutto ciò che sembra inconciliabile sussiste tuttavia in un ambito, e questo sentirlo senza perdersi nella paura, e anzi sapendo che bisogna chiamarlo con il suo nome e meditarci sopra: ecco la cosa che proprio da mia madre ho imparato, ed è la vera gloria della natura umana.” – l’avere una mente aperta permette di acquisire il cosmo intero. Mia madre aveva fatto solo fino alla quinta elementare. Sapeva apprezzare il mio adorato Carmelo Bene, che mio padre, più colto, non sopportava. Dopo che papà aveva mostrato disprezzo per quell’assurdo modo di recitare, lei una volta disse: No! Rolando! L ē brêv! Anch’io non capivo tutto quello che egli diceva, né perché lo diceva in quel modo, ma anch’io sentivo che era l’unico con cui andava detto. E soltanto Bene era riuscito a trovarlo, chissà dove!

Tua madre, a volte critica nei tuoi confronti, ti seppe lodare, quando le dimostrasti di saper imparare bene il tedesco. Ora, quando ti meravigli, davanti a lei, per l’eccessiva modestia di tuo padre, lei di dice che tu hai preso da lei! E la cosa non ti piace affatto: sei combattuto, per meglio dire. Sentivi per lei una strana passione, non troppo dissimile a quella che si prova per la propria fidanzata. La gelosia “divenne così presto parte della mia natura che non parlarne sarebbe una falsificazione. Sempre la gelosia si è manifestata, ogni volta che qualcuno è diventato importante per me, e solo pochi fra questi non ne hanno sofferto.” – in questo (e in tantissimo altro!) ci differenziamo. Io amo far incontrare gli amici e, se scopro che si sono visti senza di me, ne sono felice. Amo troppo la mia libertà, per giungere a disprezzare l’altrui. Per la passione amorosa è diverso, ché essa è un’amicizia resa folle dai sensi, illusoria come poche altre!

Grazie all’esempio di tua madre, ora puoi dire: “Imparai in tutte le forme e i modi possibili, senza mai sentire l’apprendimento come sforzo o imposizione, perché non c’era nulla al mondo che mi affascinasse di più o di cui più volentieri mi occupassi in segreto.”

Un secondo meraviglioso regalo ti fece: “mi risparmiò ogni calcolo” – e non sentisti mai l’onere morale di dover svolgere una mansione che non sentissi come tua, ma necessaria: “Il successo non significava farsi avanti per se stessi, il successo o era vantaggioso per tutti o non poteva dirsi tale.”

Una frase di tua madre che si può discutere all’infinito: “… ci sono poeti che la vita la prendono a prestito. Altri invece la posseggono, come Shakespeare.” – tu le dici che forse è ubriacata dal profumo dei ciclamini. Io ci sto meditando su, poi eventualmente ti dirò. Ma intanto, vorrei chiedere a tua madre: dov’è ora quel miracoloso William?

Dopo l’ennesimo litigio, tu capisci che lei sta male e te la coccoli. Tanto che lei ammette, quasi alla fine di questa quarta parte: “Oggi sono io il bambino e tu la mamma.” – che frase!

La quinta e ultima parte è: Zurigo – Tiefenbrunnen 1919-1921: vi siete trasferiti in “una villa fuori città”, il cui “giardino sul davanti della villa non era visibile dalla strada” – per cui “di posti per nascondersi ce n’erano in abbondanza.” Dici: “Sentivo ogni nuova esperienza come qualcosa di fisico, come una sensazione di dilatazione corporea. Ciò era dovuto al fatto che, pur sapendo già parecchie altre cose, il nuovo non aveva con queste il minimo legame. Una cosa nuova, separata da tutto il resto, veniva a collocasi dove prima non c’era nulla.” – e questa è la più magica delle fantasie umane. “… era un dilatarsi, un liberarsi da limitazioni e confini, la conquista di terre vergini nel verso senso della parola, diversamente popolate, non inventate come nelle fiabe e nei racconti, cose che, una volta chiamate con il loro nome, acquistavano una realtà incontestabile.”

Le tue storie erano essenzialmente tue: poi potevano appartenere anche a chi le voleva seguire. O abbandonare. A secondo del suo animo. “Io le mie storie me le tenni tutte, le conservai gelosamente continuando a tesserle per me solo, e partendo da esse ne inventai addirittura di nuove…” – e questo deve fare uno scrittore e qui ti voglio provocare: devi essere sia il dio che ha creato il fuoco, sia la vestale che lo deve mantenere in vita. Se tu affidi questo sacro compito a qualcun altro, fai la fine del Dio di Nietzsche.    

In La petizione narri della lettera con cui voi diciassette ebrei della scuola scriveste al Preside per denunciare certi episodi di bullismo antisemita che accadevano dentro e fuori l’aula scolastica. Ora ripenso a tua madre, quando scandalizzando per causa di Hedi, disse: “Una cameriera che parla inglese, no, non è possibile, non s’è mai vista! Perché non lo ha detto prima? È stata ad ascoltare tutto quello che dicevamo, quella disgraziata! Io non lascio che i miei figli siedano a tavola insieme a una spia!” e poi: “Non possiamo licenziarla in tronco, darebbe troppo nell’occhio. Dobbiamo pazientare ancora quindici giorni. Ma dobbiamo stare attenti…”.

Quando tu gli avevi detto dello strisciante disprezzo verso gli ebrei, lei “reagiva con la tipica imperturbabilità del suo orgoglio di casta e interpretava il tutto come diretto contro qualcun altro, e ai contro gli ‘spagnoli’” – che null’altro erano che degli ebrei cacciati dalla Spagna.

Che bel capoverso colgo a pagina 289!: “La nostra classe aveva una veranda e si apriva sul giardino, durante le lezioni tenevamo le finestre aperte e sentivamo un gran profumo di alberi e di fiori le frasi latine erano inframmezzate dal cinguettio degli uccelli.” – che a modo loro le chiosavano.

Tu riconosci che i temi di Bleuler erano migliori dei tuoi e gli dicesti: “Sei un vero scrittore”. A me capitò per compagno di liceo un certo Gino, che scriveva come mai sarei stato capace e provavo per lui la massima ammirazione (e secondo me lui se ne accorgeva). Non gli dissi mai che sarebbe diventato uno scrittore, perché sapevo che anche lui lo sapeva. Lessi dei suoi racconti, che m’interessarono soltanto in quanto capii che erano una sorta di abbrivio per una brillante carriera.

Ma sentivo che anche io lo ero, ma ero destinato altrove, in un luogo che ancor oggi ignoro.

Un episodio della tua prima infanzia fu duramente censurato dal nonno che ti minacciò con un bastone e fece entrare nel tuo cervello un dogma che è poco definire sacrosanto, vietato uccidere: “posso definirlo il divieto fondamentale e originario della mia esistenza”. I tuoi consanguinei erano particolari, ma sono riusciti a trasmetterti i migliori fra i loro valori: “Sono cresciuto sotto il dominio di questo divieto, e anche se nessun’altra proibizione poté in seguito raggiungere mai l’intensità e l’importanza del divieto di uccidere, tutte trassero da questo la loro forza.” – il rispetto assoluto verso la vita è il tuo primo valore, in altre parole.

“Forse la mamma ci teneva a diventare lei l’unica istanza degna di enunciare sia i divieti che i comandi.” – traendo dalla sua letteratura preferita “la certezza che ciò che conta non è una conoscenza approfondita delle diverse religioni.” – perché, per lei, era la letteratura l’unica religione davvero portante. “… l’esistenza stessa delle guerre la considerava una prova irrefutabile del fallimento di tutte le religioni.”

Tu sentivi una magica attrazione verso di lei: “tutta l’autorità si concentrava in lei, io le credevo ciecamente, mi dava una felicità credere a ciò che lei mi diceva, e ogni volta che si trattava di qualcosa di importante, di decisivo, io aspettavo la sua parola come altri quella di un dio o de suo profeta.”

Il secondo grande tabù che ti impose era il sesso; ma “mentre questo tabù crollò ben presto da solo”, l’altro, sancito sia da nonno che dalla tua genitrice, “rimase fermo e incrollabile.” I topi la spaventavano e, quando li vedeva, tornava la ragazzina che non aveva mai cessato di essere, ricca di consapevolezze ma ancora in fase di crescita.

Mentre descrivi uno a uno i tuoi professori elvetici, raccolgo un’altra tua indicazione di lettura: “Il tesoretto dell’amico di casa renano di J. P. Hebel. Ti prometto che lo cercherò e che lo leggerò, in quanto: “ogni singola frase che mi veniva da Hebel rimase intatta dentro di me. Non ho scritto un solo libro senza averlo segretamente misurata sulla sua lingua, e tutti, nessuno escluso, sono stati scritti per la prima volta proprio in quella stenografia che solo grazie a lui ho imparato.” – per sapere in che senso, occorre leggere questo capitoletto: ‘Kannitverstan’ il canarino.

Il tuo professore preferito è Friedrich Witz, il quale “si rifiutava categoricamente di farsi temere”: anch’io ne avevo uno così, che permane nella mia memoria e per quanto sia assurdo sento il dovere di scrivere il suo cognome, che mi parve da subito buffo: Moietta. Eppure vorrei incontrarlo di nuovo, questo prodigioso insegnante, che riuscii a non volere a tutti i costi evitare. Degli altri non desidero parlare, anche se sono quasi certo che, nella maggior parte dei casi, il vero problema ero io. “Con lui non si andava avanti, si era piuttosto ora qua e ora là, totalmente sprovvisti di meta, quand’anche ignota.” – lui ti offriva la possibilità di entrare nelle cose, quante ne “venivano fuori, bastava sentirne parlare per trasformarsi in esse!”

Ti faccio una proposta, di quelle cogenti: un giorno ci troveremo tu, Witz, Moietta e il sottoscritto, dove non si sa, non è un dato importante quanto lo è incontrarsi di nuovo.

Assisti a una conferenza fatta da un tuo ex insegnante di storia, Eugen Müller, su Michelangelo: “Era come se la bellezza non fosse qualcosa di distaccato e separato, indipendente dagli umori e dalle contingenze del tempo, ma al contrario dovesse confrontarsi con l’infelicità, quasi sopportare il peso di una grande angoscia, e solo se in ciò non si consumava, ma anzi manteneva intatta e indomita la propria forza, solo allora avesse il diritto di chiamarsi bellezza.” Potrei discutere con te e con chi ti pare questo concetto, ma perché?, mi chiedo: è già perfetto così, così incredibilmente incapibile.

Michelangelo: “La sua suscettibilità alle umiliazioni lo portò ad affrontare solo le imprese più difficili. Per me non poteva essere un modello, perché era di più: io dio dell’orgoglio.” Questo è il motivo per cui gli preferisco Leonardo. Lui era così diverso da chiunque e non poteva mettere a repentaglio il suo tempo per simili minutaggini: altre, ben più assurde, incombevano sulla sua testa prodigiosa.

L’ultimo capitoletto è La cacciata dal paradiso, che riporta un estenuante, come un’interminabile volata in salita, dialogo-scontro fra te e tua madre, che “sceglieva i suoi mezzi con mano pesante.” Lei era convinta “che gli impulsi del cuore devono essere rivolti soltanto agli esseri umani” – e non, per esempio, a quel Ragno nero che era entrato nella tua psiche dopo che avevi letto quella novella di Jeremias Gorrhelf. Lei pensa che se, quegli impulsi, li “si volessero estendere a tutte le creature viventi perderebbero la loro intensità, diventerebbero incerti e inefficaci.” – semplici opinioni, ma non è questo che importa, quanto il fatto che sia lei a gettartele in faccia. Lei ti dice anche che le cose della vita “devi provarle sulla tua pelle” – così pure mi disse un’amica, che poco aveva letto, ma che quasi mi annientò quando mi disse che non sarei mai stato uno scrittore, se prima non avessi vissuto almeno un po’. Per la cronaca questa pia donna si chiama Gabriella, che ringrazio tanto, davvero.

Tua madre, a ogni tua obiezione, non manca di accarezzarti con un montante al mento, oppure con un gancio alla tempia sinistra, per esempio quando ti dice che la cultura non ce l’hai ancora e che “solo quando la si ha, diventa qualcosa di morto.”

Quanti libri ho letto, mio dio. Quanti, fra di loro, ancora respirano?

Lei si ricordava tutto e “mi ritorceva contro ogni parola che le avevo detto, e io non ne trovavo di nuove che la facessero vacillare. Mai si era scagliata contro di me con tanta violenza.” – ma tu eri come Vito Antuofermo che riuscì a pareggiare con Marvin Hagler, perché (la battuta è di Gianni Brera) i pugni li parava tutti di faccia!

“Si occupò del trasferimento in Germania.” – così “il paradiso zurighese era finito, finiti gli unici anni di perfetta felicità” – perché, te lo ripeto, tótt à fîn!

“È vero che io, come il primo uomo, nacqui veramente alla vita con la cacciata dal paradiso.”

Bisognerebbe forse uscirci ogni giorno, per poi rientrarci di soppiatto, con la fantasia (e con la scrittura, se ci si riesce).

Oh! Sento che mi sta ora chiamando Italo (Calvino) che, in Mondo scritto e mondo non scritto, diceva di sé di appartenere a quegli umani che vivono in un mondo avvolto da righe orizzontali, che richiedono tutta una serie di adattamenti mentali per poterci vivere dentro. E che ogni volta che ne usciva, per lui equivaleva a provare una specie di trauma della nascita. Questo vale per te, quanto per me e, penso, per chiunque sia riuscito a giungere a questo punto della lettura, non tanto del tuo densissimo libro biografico, quanto di questa mia miserabile, improbabile e insostenibile sua lettura. A mia discolpa sappi che gran parte della responsabilità è tua. Tu sei uno di quegli scrittori che non sanno scrivere una frase senza mettere in crisi il lettore che, per non soccombere, deve pur reagire… Concordi?

Elias Canetti, La lingua salvata, Adelphi, 1991

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