Gli Eroinomadi -

2022-07-23 05:21:37 By : Ms. Marketing Vendlife

Una vita d’alpinismo – 101 – Mezzogiorno di Pietra – 6 (AG 1981-007)

Capri e Monti Lattari Il 4 settembre 1981, partiti da Milano, alla sera eravamo alla base del Vesuvio, dove c’era la partenza della seggiovia, quella chiusa solo tre anni dopo. Non c’era nessuno e pioveva a dirotto. Dopo la cena rimanemmo un po’ a chiacchierare sotto una tettoia. Alcune folgori illuminavano di tanto in tanto le oscurità circostanti, seguite da botti fragorosi che ci scuotevano fino al midollo. Andrea aveva addosso un barocco gilet con borchie. Ebbe l’idea di fotografare i lampi, così anch’io estrassi le borse con le macchine fotografiche. Poi Nella e io ci ritirammo nel pullmino, e Andrea Savonitto, da tutti chiamato il Gigante, si accomodò sul tavolo che era lì sotto la tettoia. Come poi avremmo fatto ogni sera, mia moglie e io spostammo il bagaglio sui sedili anteriori.

Faceva caldo e dormimmo con la porta scorrevole semiaperta. Alle quattro di mattina mi svegliai con l’urgenza di fare la pipì, cosa che normalmente non mi capitava mai. Mi misi le scarpe, uscii e notai subito la porta del passeggero aperta. E con orrore vidi che mancava una borsa, o meglio LA borsa, quella che conteneva tutte le mie macchine fotografiche e tutti i rullini! Il tem­porale era più violento che mai e questa volta illuminava di luce violacea anche la nostra disperazione.

Considerando la Hasselblad, la Nikon, la Nikkormat, la Rolleiflex e altre due macchinette leggere, più una serie di accessori e obiettivi da paura, più un centinaio di rullini… beh, il valore sfiorava i nove milioni di lire!

Anche Nella si svegliò con l’urgenza, cosa del tutto anomala. Pensammo di essere stati narcotizzati con lo spray, non c’era altra spiegazione dato il nostro sonno leggerissimo. Evidentemente ci avevano spiati la sera prima e nella notte hanno colpito.

Ciò che più sorprende, al di là del valore della merce e dei problemi tecnici che mi creò l’incidente, è la grande bravura dei ladri, l’arte direi sfoggiata nell’alleggerirci. Non so cosa darei per vedere come in un film la loro azione, certamente molte altre volte sperimentata nello stesso luogo: chissà quante volte il Vesuvio sarà stato muto testimone di prodezze del genere. Dopo la necessaria inchiesta dentro di me: «ma cosa avrò mai fatto di male per una tale punizione», vi risparmio le penose ricerche fatte al mattino nei negozietti di ricordini là accanto, come pure la ridicola denuncia ai carabinieri.

Ero distrutto, per tirarmi fuori c’era solo da scendere a Napoli e comprare una macchina fotografica. Comprai la Nikon di primo prezzo, più i rullini necessari per due mesi di viaggio. Nel frattempo un amico mi scarrozzava per Napoli (dicendomi di non tenere il braccio fuori: avevo l’orologio sulla destra!), mentre il Gigante e Nella vegliavano sul pullmino.

Capri è una delle più antiche sta­zioni di soggiorno turistico, tutti sanno del sole, del mare e dei Faraglioni. Era la prima volta che visitavo l’isola e, confesso, avevo certamente qualche idea precon­cetta sul suo conto. M’immaginavo un’isola assai affollata da turisti italiani ed esteri, tenuta a giardino e con alcune mirabili ville di proprietà di qualche facoltoso tedesco in pensione.

Arrivammo a Marina di Capri di sera e mi fece l’impressione di una Portofino del sud. La funicolare mi riportò a molti anni indietro quando da piccolo salivo da Genova al Righi con quel mezzo la domenica pomeriggio assieme ai miei genitori, con le borse piene di merenda: al Righi avevo assaggiato in un bar la mia prima birra e l’avevo trovata disgustosa (in confronto all’aranciata). A Capri invece ci avviammo in discesa per i vicoli con enormi zaini sulla schiena, leccando un cono gelato di mediocre qualità. I vicoli erano molto illuminati ed era l’ora del passeggio dopo cena: noi non avevamo ancora mangiato nulla. C’erano signore molto eleganti, au­steri signori in vacanza, da alcuni locali sprigionava della musica discreta, l’aria set­tembrina era pervasa di odori floreali assai intensi che la notte faceva ancor più penetranti. Ebbi l’impressione di essere a Venezia, non so perché. Al termine del­l’abitato scendemmo al mare, vicino ai Faraglioni, dove bivaccammo assieme a due tedeschi che da sei mesi lavoravano in un paese terremotato dell’Irpinia.

Non ci piacque, forse non eravamo dell’umore giusto dopo quel furto pazzesco. Sul Faraglione di Terra salimmo la via Steger, il diedro Luchini e andammo anche alla via Capuis dell’Arco.

Il giorno dopo, 7 settembre, per una strada a tornanti raggiungemmo un posto di villeggiatura in montagna sui Monti Lattari. La località era zeppa di villette, debbo dire però abbastanza ben inserite nel verde. L’unico appunto da non tacere era l’immane sporcizia che regnava ogni dove. Strati d’immondizie d’annata imbrattavano stupendi sottoboschi e special­mente nei primi metri vicino alle strade che solcavano questo stupendo parco naturale di castagni, di conifere e soprattutto di faggi. A piedi salimmo al Monte Faito (Monte Sant’Angelo ai Tre Pizzi) (faìto=faggeta), la prima vetta dei Monti Lattari; proseguimmo nella nebbia fino al Molare, dove salimmo lo spigolo ovest per una breve ma bella via che scoprii poi essere quella di De Crescenzo. In serata eravamo a Punta Scùtolo, ma non riuscimmo a traversare la parete (sotto Seiano) per raggiungere lo spigolo della punta. Lasciammo un chiodo e tornammo indietro.

Vesuvio e Punta Campanella Più che coronare il paesaggio con il suo cono, la montagna oggi si oppone, con i fianchi potenti, all’assalto delle case che dalla costa tendono ad arrampicarsi verso l’alto. Non è più un vulcano che minaccia distruzione, ma un’enorme massa dal profilo informe, dai colori cupi, dal disegno che appare provvisorio, giacché non si può cancellare del tutto dalla mente l’immagine passata, ormai consacrata alla tradizio­ne.

Quella notte del 1944 in cui il Vesuvio ebbe un ultimo sussulto di violenza e di distruzione, mentre gli Alleati entravano a Napoli, è ancora ben ricordata dalla gente. Allora, come sempre, si pregò e la fede nei miracoli l’ebbe vinta sugli incre­duli. Da allora il Vesuvio non fa più paura, le fumarole che si sprigionano dal cratere non sono terrifiche, la visione all’interno non ha molto di dantesco.

L’8 mattina prestissimo salimmo in vetta al Vesuvio, era un pellegrinaggio necessario ma lo vivemmo come un’imposizione. E nel pomeriggio ci spostammo alla Penisola Sorrentina.

Da Na­poli l’itinerario è assai lungo, non tanto per i chilometri quanto per il tempo necessario ad attraversare un abitato affollato e interminabile, una giungla di cemento e di motori che poco ha più a che fare con qualsiasi reale stazione di sog­giorno. In miserevole coda sulla statale ci auguravamo che tutto ciò prima o poi avesse una fine. Ma se la costa sorrentina ci diede quest’accoglienza, non altrettanto possiamo dire della parte amalfitana, certo più riposante e più a misura d’uomo. Gli stupendi scorci di quella costa, sia pur di rocce non tanto atte a un’arrampicata sicura, ci fecero presto dimenticare le ore d’incubo settembrino vissute in prece­denza.

A ben cercare riuscimmo pure a scoprire un angolo di roccia bellissima, la Punta Campanella. Qui, sulla Torre di Montalto salimmo un itinerario nascosto e grazioso, Tutto ciò che Napoli non sa, 90 m di splendida arrampicata libera.

Peccato che non “vedemmo” le future falesie di arrampicata sportiva di Positano. Fu un grosso errore, almeno qualcosa avremmo dovuto fare, ma proprio non intuimmo il potenziale di quel luogo. Che invece videro bene Cristiano Bacci e Adriano Trombetta molti anni dopo.

Monti Picentini L’Eremo di S. Salvatore è una pieve rintanata sotto una parete strapiombante, quasi costruita in una grotta, abita­colo di sparvieri e di rapaci e non più di monaci pii ed eremiti. Da lì non si percepisce assolutamente nulla del sovrastante Monte Terminio, ma non appena se ne intravede la salita, cercando di orizzontare la propria direzione senza sbagliare troppo, alla sog­giogante mancanza di punti di riferimento s’aggiunge il soffoco di un versante, finalmente visibile, che per qualche complicato gioco visivo o per qualche nascosta sensibilità ti afferra lo stomaco più che una parete verticale, più che uno strapiombo giallo e rossastro delle stesse dimensioni. Ci sono due o tre canaloni principali di cui non si vede mai il fondo che raccolgono impluvi minori ma anch’essi profondi e bui, ricoperti di un pietrisco infido che scivola e rotola su erba ispida e tenace. Raggiun­gere la cima non è difficile, basta tenersi sulla comoda cresta e s’incontreranno anche dei pastori e dei greggi al pascolo; ma se si sta sul versante meridionale alla ricerca di qualche parete, di qualche spigolo o pilastro con i quali saziare la sete di avventura e di nuovo e di bello, ecco che ci si troverà di certo impegnati nei canaloni, dove ci si produrrà in corde doppie, traversate su pendii d’erba assurdi, senza mai capire dove realmente si è, dove forse non s’incontra neppure traccia di animali. Il sole di quel primo mattino (9 settembre) illuminava radente le creste divisorie di quei selvaggi canaloni.

Eppure è forse questo che ancora ci affascina, solo questo merita di essere raccontato, perché lo si è vissuto. Giunti alla fine della nostra forsennata ricerca ci ritrovammo senza strutture rocciose in nostro possesso, perché tutte erano troppo difficili o troppo laboriose, ci ritrovammo dicevo quasi in cima e solo allora ci accorgemmo che il pane degli dei era terminato. Quella era una penitenza! Solo sull’ultima bastionata del Terminio, un’ultima fessura sulla parete sud-ovest della Quota 1772 m ci permise di arrampicare (Penitenziagìte).

L’ora limpida e tranquilla non poteva essere più propizia al nostro arrivo. La veduta era estesissima, a noi dintorno; e dappertutto, dai poggi irpini ai contrafforti lucani, dall’acuminato Vesuvio all’ampio Vulture, regnava una quiete dolcissima e splendeva una luce tersa e dorata, che dava all’animo non so quale impressione profonda di calma e di riposo. Era una di quelle immense vedute che distraggono occhi e pensiero; solo il Monte Accellica, fatto a mo’ di forca, attirava distinto lo sguardo e predominava maestosa e solenne. Sì, perché lo avremmo salito l’indomani lungo il suo versante est, dal Passo Croci d’Acerno. Per il resto, l’occhio e il pensiero erravano qua e là a caso. Mi ricordo tuttora di certe ultime catene di monti, sfumate e ondeggianti, quasi nuvole dell’estremo orizzonte, che mi davano come una vaga sensazione di quell’i­gnoto, di quell’interminabile, di quell’infinito che tanto affatica la mente.

Monti Alburni Contavo molto su quella catena montuosa situata tra le valli del Tanagro, del Calore e del Sele che si presenta da ogni versante, tranne che da est, come una barriera calcarea, quindi come un’immensa mesa, un acrocoro che domina tutte le valli circostanti: i Monti Alburni.

Lo si scorge già da lontano, dall’Autostrada del Sole, e la speranza che il tracciato passi un po’ più vicino è presto esaudita: tra Sicignano e Petina verso sud una bianca­stra muraglia, traccia della frattura principale, risplende sulle boscaglie scure, mas­siccio castello che divide il mondo nostro dall’altro, barriera tra dimensioni di fa­miliare progresso frenetico e vago desiderio mattutino di pace. Postiglione, Sici­gnano, Petina, S. Angelo a Fasanella, Controne, Castelcìvita, sei paesi associati alla base del castello, sei nuclei tra l’autostrada, distante, invisibile ma presente termine di confronto, e il regno del falco pellegrino e del gheppio. Se non ci fosse la Forestale e quindi l’idea di sorveglianza, di controllo, di censimento accanto a reali strade che s’inoltrano nei boschi, molto in alto verso le radure quasi al di sotto delle rocce finali, gli Alburni non solo sembrerebbero inespugnabili a prima vista, ma mostrerebbero una ancor più incisiva immagine di grandezza e impercorribilità.

L’11 settembre ci buttammo subito sulla via più evidente. Era bello come con il Gigante ci fosse quest’identità di vedute. Lui vedeva “il” problema esattamente come lo vedevo io: perciò non era solo mio compagno durante la salita, ma anche prima. Il Figliolo delle Torri di Petina andava fatto, e la parete nord, la più bella: Tirami su è una via di 100 m forse mai ripresa che meriterebbe più attenzione.

Al ritorno e accanto al pullmino eravamo in faccende, appena tornati dalla salita che ci aveva impegnati. Dallo zaino estraevamo corde e fettucce colorate, moschettoni e chiodi che producevano un tintinnio ben diverso da quello di animali al pascolo. Si avvicinò un pastore soli­tario: non sembrava venire da molto distante, forse ci aveva anche osservati durante la giornata, magari incuriosito dai nostri richiami. L’italiano era un po’ approssi­mativo ma in compenso ci faceva capire con espressioni e gesti che di volta in volta tradivano una simpatica curiosità o una rassegnata accettazione del lungo (ma nor­male) periodo di siccità, della vita dura oppure ancora una compiaciuta soddisfa­zione che lo si confermasse un uomo pratico del posto, perché conosceva i sentieri, le scorciatoie, i «mali passi» e la foresta per lui era come una grande casa senza segreti, dove il padrone cammina senza pensare troppo agli oggetti che lo circondano ma in realtà estremamente vigile nel notare una discordanza, un taglio, un’orma: un’at­tenzione la cui pratica si acquisisce forse solo con il trascorrere della vita, dopo anni di non pensiero al seguito degli animali al pascolo. Il pastore non è in grado di disegnare una mappa della foresta e delle radure, però conosce metro per metro il terreno, le singole gobbe, gli alberi uno per uno. Quelle poche fonti non sono pe­renni, solo alcune. E quelle che stanno per esaurirsi in attesa di una grande pioggia… bisogna sapere quando, e quella scarsa acqua va divisa con gli animali di altri pa­stori.

Il nostro uomo era sinceramente stupito che noi avessimo potuto arrivare fin lì da soli, senza che nessuno ci avesse indicato la via. Era sicuro che prima o poi ci sa­remmo persi nella foresta. Ma questa sua certezza lo faceva sorridere sornione, perché lui conosceva il bosco e sapeva anche che perdersi non vuol dire morire di sfinimento a ridosso di un albero. Sorrideva dentro di sé perché quella piccola e innocua fantasia di vendetta su degli estranei era certamente divertente. Mentre parlava e gestiva lasciavo che le sue parole mi avvolgessero, così da entrare non visto nel suo mondo: ero certo che entrando nella sua testa avrei varcato anche la soglia del mondo degli Alburni che ancora non conoscevo, a parte l’esperienza di quella giornata, un’avventura verticale ai margini del territorio.

Gli chiesi «com’era salire in cima all’Alburno»: mi sembrava che, dopo che ci aveva visti sulla parete del Figliolo e dopo l’esibizione del materiale usato, avessimo guadagnato qualche punto nella sua considerazione di «questi strani turisti». Le sue spiegazioni furono infatti chiare nella sensazione generale anche se confuse to­pograficamente. Facevo fatica ad adeguare gli schemi che la mia mente aveva già costruito sul conto dell’Alburno alla sua esposizione basata su termini diversi, con argomenti di interesse diverso. All’inizio l’uomo era tranquillo ma gradualmente si trasformò e dopo un breve silenzio esclamò alcune parole che io ascoltai in dormi­veglia tipo «ma lassù, lassù… è la montagna», gli occhi sgranati di un ragazzino, la voce prima aspirata poi trascinata, la bocca che spingeva in fuori per esprimere il massi­mo del meraviglioso, del favoloso, per citare un grande rispetto e il legame alla tradizione.

L’Alburno è una vetta rocciosa ma almeno due terzi della superficie sommitale sono meta di pascolo quotidiano di capre, pecore, cavalli e persino bovini. Gli ani­mali arrivano tranquilli al segnale trigonometrico e da secoli gli uomini si recano lassù a raccogliere le bestie, talvolta il corpo di qualche animale caduto. La cima dell’Alburno è assolutamente insignificante se nei significati si vuole inclu­dere la difficoltà di accesso e di scalata. Eppure l’uomo si espresse con tale forza che subito avvertii che al di là di conoscenze tecniche così diverse (noi con l’Himalaya alle spalle, lui con una vita in quello stesso posto), avevamo certamente una base comune e non intendo qualcosa che hanno solo alcune persone. Il simbolo della montagna e della sua terrifica o benefica potenza si manifestava in quelle poche parole mormorate a degli sconosciuti nella sua piena forza e agiva su di noi come su di lui con un senso di immediata conoscenza e di cose che valgono.

Vidi in una sola immagine il monte da cui sgorgano le sorgenti, un monte che si veste di pascolo per gli animali e di boschi per la legna e le costruzioni degli uomini. Ma vidi pure allo stesso tempo, nell’incertezza di un sogno che non si sa neppure se veramente è stato so­gnato, vidi pure i temporali violenti, le frane catastrofiche, le distruzioni, le inonda­zioni, la neve che tutto copre e che s’indurisce al gelo e rimane lassù per parecchi mesi dell’anno. Il volto dell’uomo era segnato da quelle stagioni, ma brillò di una luce diversa per qualche attimo. Poi la consueta aria arguta di scaltro montanaro riprese il sopravvento, noi ci isolammo dentro la qualità dei nostri personaggi, il dialogo decadde e a passo veloce l’uomo se ne andò verso Petina. In silenzio preparai le ultime cose, poi ce ne andammo sempre più all’interno del massiccio, ricoperto da fitte nebbie in un fine pomeriggio umido e silenzioso. Poi, mentre salivo da solo in una strana atmosfera ovattata, sentivo i campanacci di alcuni bovini al pascolo, sem­brava che i suoni venissero da ogni piccola radura che invece si rivelava deserta. La Fonte dei Cavalieri era un misero agglomerato di pozze d’acqua fangosa. Una leggera brezza mi fece intuire che ero arrivato: il vuoto del versante nord scaricava le sue pressioni nell’umidità di quello sud. Arrampicai su delle torri aguzzee quando fui in cima a quei pinnacoli d’improvviso si rivelò la parete del Braccio, verticale, di un colore diafano che s’affondava nell’oscuro verde della vegetazione.

Stava diventando buio e io sommavo le fessure che vedevo, sottraevo i tetti e le placche lisce, moltiplicavo per i metri. Alla fine di queste operazioni mentali ero più tranquillo, domani ci sarebbe stata un’altra bella avventura. Quando la parete era ormai indistinguibile e il villaggio di Petina giù in fondo al vuoto aveva già acceso le sue luci, malvolentieri mi alzai e riscesi. L’avventura più bella, quella di scalare una montagna da dentro, l’avevo appena vissuta. Le apparenze, come sappiamo, varia­no, e non esiste un rilievo uguale all’altro.

Con il Braccio e la mente, sul Braccio degli Alburni, alzammo il tiro. Ne risultò una via speciale, difficile, ma anche raccomandabile a chi abbia voglia di arrampicare senza agganciare spit. La via è di 160 metri, alterna parecchia libera a un po’ di artificiale e merita una ripetizione. Era il 12 settembre.

Il giorno dopo cambiammo zona. Sempre Alburni, ma versante ovest, forse ancora più selvaggio, e di sicuro meno facilmente accessibile. Ci piacque immediatamente un diedro, sulla parete ovest-nord-ovest della Cima Colle Marola. È questa probabilmente la più bella via da noi aperta in quei giorni a loro modo “grandi”: 150 metri tirati ed elegantissimi, sopra un approccio incrociato da una moltitudine di cinghiali. Chiamammo la via La Forza del Sud, e il giorno dopo ne tentammo un’altra sulla Cima Fago con l’Acqua. Già alla fine della prima lunghezza fatta da me, il Gigante l’aveva battezzata Necroidiozia. Poi quando vide la seconda, e quando capì soprattutto che io volevo continuare, si oppose e pretese senza mezzi termini di scendere e abbandonare. Non riuscivo ad accettare di aver perso un giorno!

Avevo ancora una giornata in programma, la spendemmo sull’appariscente Parete di Castelcìvita (Timpa di Piedelalma). Il Gigante attaccò un tiro duro in obliquo a sinistra sul giallo, io continuai su un ancora più duro diedro. Sugli ultimi due tiri mollarono per fortuna le difficoltà: il Diedro degli Eroinomadi (15 settembre).

Avevamo vissuto gli Alburni, sconosciuti e fascinosi, da tutti dimenticati ma non dalle guardie forestali, dai pastori e dagli uomini che vivono ai loro piedi. Che in particolari momenti dell’era atomica sono ancora capaci di esprimere con poche e smozzicate parole e qualche gesto ciò che gli alpinisti da sempre cercano sulle mon­tagne più alte, quel senso dell’avventura che non c’è, ma che c’è se cambiamo piano e cioè se adattiamo l’uomo alla montagna invece che rincorrere il prevedibilmente impossibile mito di adattare la montagna all’uomo.

Mago Sabbiolino e Monte Bulghéria Alessandro Grillo me l’aveva detto: «A Pietrapertosa? Inutile tu ci vada! Le chia­mano Dolomiti Lucane, ma non è dolomia, è arenaria. Noi siamo andati a vedere ma non abbiamo fatto niente perché non ne vale la pena». Di fatto però quei torrioni e quelle guglie dalle forme inconsuete mi affascinavano. Pensavo ai crag inglesi di sandstone (arenaria), oppure alle foreste di pietra di Boemia, regno di superbe arrampicate, come pure ai torrioni famosi dell’Elbsandsteingebirge, vicino a Dresda: non può essere che a Pietrapertosa ci sia qualcosa di analogo, che sia lì ad attendere proprio noi, come già era successo per tante altre località calcaree che nessuno conosceva?

L’alba sulle Dolomiti Lucane fu radiosa (16 settembre), infuocata di colori stupendi e pieni. Con eccitazione ci avvicinammo alle rocce, ma subito capimmo che c’era un abisso tra i «klettergarten» che vagheggiavamo e la realtà che ci sfidava beffarda. Non si può parlare di roccia cattiva. È certamente tenera, ma non friabile. Ciò che rovina tutto è una leggera crosta rocciosa che copre il resto e che appena toccata si sgretola. Occorrerebbe pulire le fessure con il Black & Decker e si avrebbe una roccia eccel­lente. Purtroppo tale strumento non era compreso nella nostra dotazione e così do­vemmo arrangiarci, lottando con quella leggera sabbia indurita. Ecco perché Mago sabbiolino, quello che con dolcezza getta la sabbia negli occhi dei bambini piccoli per farli addormentare. Il Gigante mi ricorda che a un certo punto ho messo un angle di 1 cm di spessore in una fessurina da extrapiatti. Ed è entrato! Io invece ricordavo bene la expanding crack della terza lunghezza, dove i friend che mettevo tendevano ad allargare la fessura stessa!

Giunti in cima al torrione (parete sud, 60 metri, tre lunghezze, fino al VI e A4) ci accingemmo alla discesa. Volli tentare, assicurato dall’alto, di scendere in arrampicata, per vedere se poteva esserci una via normale un po’ più facile. Fin dai primi metri mi accorsi che la placca che stavo scendendo presentava delle strane tacche, certamente non naturali perché disposte con una continuità e con una regolarità decisamente umane. Seguendo le tacche riuscii a scendere. È probabile che il tempo, i secoli, le abbiano ridotte di dimensioni, ma certo è che così stando le cose le difficoltà sono ancora fortissime e si riesce a mala pena a compiere i vari movimenti. Battezzammo così quella sottile cima il Torrione dello Svevo, perché ridemmo a fantasticare su un soldato svevo, al servizio del Signore del locale castello, che si era arrampicato fin lassù per salvare la vita. Aveva ucciso un commilitone in un alterco ed era stato condannato a morte. Così chiese di poter portare la bandiera e i vessilli del suo Signore in cima alla guglia più inaccessibile. Da solo ci riuscì, nessuno lo assicurava dal basso perché non c’era ancora la tecnica: in mano aveva solo un martello e una punta.

Tra la val d’Agri e l’alto bacino del torrente Camastra, al centro quindi dell’Appennino Lucano, si erge il Monte Volturino. La rete di strade e stradine che avvolge anche questa montagna non èper fortuna sviluppata più del dovuto. Se fossimo capitati lì a ferragosto avremmo partecipato alla sagra del pro­sciutto. Invece arrivammo in una notte d’autunno, di giorno feriale. Non c’era nessuno e chi dormiva fuori aveva un po’ di paura per i lupi! Al mattino come di consueto mi aggirai alle prime luci per vedere dove eravamo finiti grazie alle indi­cazioni di un barista di Calvello.

Il sole illuminava dolcemente il Volturino, la cui cima era appena dietro il rilievo che potevo vedere da lì, faceva freddo ma non c’era brina sul prato. Oltre un dosso vidi molto vicino un gruppo di cavalli che pascolava tranquillamente. Più tardi, scendendo dalla cima, incontrammo un uomo che ci chiese se avevamo incontrato dei cavalli. Gli risposi di sì, che erano certamente più in basso. Venimmo così a sapere che quegli equini erano tutti destinati al macello: notizia dolorosa ma ine­luttabile. Da sempre l’uomo si èservito degli animali, anche per nutrirsi. Che si tratti di cavalli piuttosto che di vitelli in realtà poco importa. Tra i tanti spettacoli dolorosi cui fummo costretti ad assistere nel nostro viaggio questo aveva dalla sua parte la storia, mentre non altrettanto posso dire delle cave selvagge, dell’invasione del ce­mento, della lottizzazione, della mercificazione, della caccia all’ultimo pennuto e all’ultima pelliccia, specchi della degradazione cui siamo giunti, certificata e sottoscritta da tutta un’umanità locale e contadina che stenta a rialzarsi da un sonno millenario e che cede per indigenza e per ignoranza a una serie di ricatti e di falsi allettamenti, finché gli aiuti al Mezzogiorno non cesseranno la loro anestesia.

È caratteristica di tutto il Cilento di essere impervio e accidentato, ma solo il Monte Bulghéria vanta belle pareti rocciose, molto al di sopra dei centri abitati sorti ai suoi piedi, pareti costituite da calcari di piattaforma resistenti all’erosione, quindi ripide e irrobustite da costoni preminenti.

Il 18 settembre salimmo una strada bianca da Bosco che ci portò a una cava in piena funzione: una nube bianca assomigliava a nebbia, ma lasciava un impalpabile strato sulle cose e nei polmoni, soprattutto di chi ci lavora tutti i giorni. Un operaio si avvicinò e ci chiese dove stavamo andando «con tutta quella roba»; noi indicammo il precipizio del Monte Bulghéria, che da lì era assai imponente, ma sorridendo aggiungemmo «al­meno finché non lo caverete via!». L’operaio annuì e poi disse: «Certo che se potes­simo cavare lassù…», e sottintendeva «staremmo tutti meglio, qui da noi!».

Alla base della parete una fila di capre ci tagliò la strada, sull’erto pendio, estre­mamente arido. Noi eravamo sul versante est, forse a nord c’era più umidità e infatti le capre erano dirette là. Sapevo che nei canaloni più umidi del versante nord crescono dei bellissimi ontani napoletani e mi dispiaceva di essere lì, in una steppa­ che sembrava deserto. In cima avevo letto che c’erano grandi distese di lavanda, ma non riuscimmo ad arrivarci. Salimmo infatti il pilastro est-sud-est (1a ripetizione) e dopo undici lun­ghezze questo si adagiava a incoerente crestone, base dell’ultimo tratto erboso che, in quel caldo feroce, più che una facile e piacevole marcia verso una vetta solitaria e isolata con gran bel panorama ci appariva una tortura senza senso, tanto più che la foschia da grande calura aveva ormai invaso lo spazio circostante. Così iniziammo una lunga serie di calate a corda doppia, spesso in lotta con le spine. Per quella volta avevamo rinunciato a vedere i lavandeti: nella nebbia della cava cercammo d’evitare ogni incontro e scappammo verso zone più tranquille, senza neppure esaminare altre possibilità di vie nuove.

La progressiva invasione di strade costiere, che con squarci impietosi, sbancamenti e massiccio uso di cemento hanno reso possibile lo sfruttamento turistico di quei tratti di costa che prima erano incontaminati, ha miracolosamente risparmiato il litorale che unisce Marina di Camerata a Scario, più di 16 km in linea d’aria di costa rocciosa e quindi aspra e accidentata. Molti sono i porticcioli naturali che la scogliera ha formato: tra questi il più famoso è Porto degli Infreschi, ben conosciuto dalle imbarcazioni da diporto che spesso si concedono lì una lunga sosta distante dalla confusione dei centri abitati.

Queste cale così ben appartate sono difficilmente raggiungibili anche a piedi. La rete dei sentieri è fatta da tracce desuete, completamente invase da vegetazione infestante e spinosa. Si ripete qui l’errore di tante altre regioni di potenziale interesse turistico: o si costruisce una carrozzabile oppure si manda in malora la via di comunicazione che fino ad allora aveva servito a contadini, pastori, cacciatori. Un sentiero non è oggetto di speculazione. Così le nostre coste più belle, invece che vivere in quell’atmosfera selvaggia in cui si vede però ogni tanto l’attività ordinatrice dell’uomo, sono immerse in uno stato d’abbandono che nulla a che vedere hanno con la wilderness.

Avevo notato che da Porto degli Infreschi a Scario in qualche punto dovevano esserci notevoli appicchi rocciosi, così decidemmo di lasciar perdere la Scogliera di Cala M. di Luna, che probabilmente ha pareti fino a 150 m, e ci rivolgemmo al Vallone del Marcellino, unica grande via dall’interno alla costa. Sembrava dalla strada una valle non ripida e d’aspetto mansueto, ma impiegammo poco a realizzare che se non sapevamo bene le astuzie dei pastori non potevamo raggiungere la costa se non completamente dissanguati dai rovi. Aggirammo così l’ostacolo e passammo dalla località Ciolandria, realizzando così un percorso molto più panoramico e pia­cevole.

Il 19 settembre faceva assai caldo, il cielo non era sereno, una vipera perfettamente mimetizzata ci diede spettacolo di estrema nobiltà. Dopo lunga ricerca di tracce di sentiero (con il Gigante e Nella eravamo in tre a farlo) giungemmo alla Baia dei Francesi, dall’alto avevamo visto del movimento, c’era parecchia gente laggiù. Un barcaiolo ci salutò, chiedendo da dove venivamo. Era­vamo sudati e piedi di sgraffi. Non aveva mai visto dei «turisti» scendere da lì. Il gruppo di ragazzi e ragazze che il barcaiolo aveva portato lì si avvicinò. Ci offrirono del pesce, del vino bianco. Erano altoatesini, perciò capivano cosa fossimo venuti a fare lì. Ma il Vallone del Marcellino, alla cui foce ci trovavamo, era irto di rocce spiacevoli, anche l’occhio vuole la sua parte. Preferimmo mangiare e bere, fino a che un po’ sbronzi e ancora più sudati che in discesa attaccammo i 400 m di dislivello che ci aspettavano. La giornata non era finita: Nella e io ci lasciammo andare a un violento litigio. Il povero Gigante cercava di allontanarsi, poi ebbe la cattiva idea di dire solo qualcosina… e fu trattato a pesci in faccia da Nella, evidentemente fuori di sé: – Tu che cazzo vuoi? Se non ti va puoi andartene…

Bello il racconto, trascinante e tracimante di Avventura…foto idem…  quella in particolare del 1° tiro della via eroinomadi ho dovuto zoomare non trovavo nel b.n. della parete chi e dove  arrampicasse…ora dell’ oculista?  

Andrea, Mezzogiorno di pietra (ed. 1982) si trova in vendita su eBay. Al momento ci sono tre offerte, delle quali la piú economica a € 85,50 con spedizione gratuita.   Se mai decidessi di servirti regolarmente di eBay per creare la tua biblioteca di montagna, preparati a un salasso economico. Ma ne varrà la pena.

Grazie Alessandro. La guida di Ferranti è il mio riferimento principale. Ormai è quasi un breviario: ogni tanto ne leggo qualche passo. Lì appresi, fra le altre cose, delle tue vie ed esplorazioni al sud. Non ho perso ancora la speranza di trovare una copia di Mezzogiorno. Non userei il termine setaccio, però ogni volta che mi imbatto in qualche rivendita di libri usati un occhio lo butto. Continuo a leggerti. Ciao.    

“E sognò la libertà. E sognò di andare via.”  (Lucio Dalla)

una ventata di LIBERTA’ . Alla faccia di tutti quelli che vogliono le restrizioni, i divieti.

Caro Andrea, grazie per le tue belle parole. Ti ricordo che tutte le mie vie, oltre che nel mio introvabile “Mezzogiorno di Pietra”, sono relazionate anche nell’ottima guida di Luigi Ferranti “Appennino Meridionale” (Guida Monti d’Italia del CAI). Buone scalate!

caro Alessandro, grazie di cuore per questo tuo resoconto. Io vivo a Salerno e frequento con una certa abitudine gli Alburni e i Picentini. Ogni volta che passo sotto le vie che hai aperto alzo gli occhi per cercare di capire da dove sei passato. Proprio ieri, dom 10/7, con alcuni amici del Cai abbiamo attraversato il selvaggio versante sw del Terminio e ci siamo ritrovati sotto la fessura di Penitenziagite. Ad arrampicare mi muovo ancora con stentatezza, però prima o poi magari qualcosa riuscirò a ripeterla. In ogni caso, ti sono davvero grato per l’ispirazione.  

  Rivolgendosi agli Intermediari giusti, forse le attrezzature di gran marca  si sarebbero potute riscattare o riacquistare, apparse per miracolo, presso un rigattiere-ricettatore che aveva in appalto la”zona”. Anche  nei parcheggi adiacenti palestre di roccia allenanti, dove si tengono i corsi , si trovano finestrini spaccati…anche nei parcheggi dove iniziano strade per mounatin bike o skiroll.

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