Palestina e l’informazione che non c’è – La Bottega del Barbieri

2022-07-30 05:17:24 By : Ms. Ivy Li

il Blog di Daniele Barbieri & altr*

testi di Bds Italia, Johan Galtung, Yuval Abraham, Gideon Levy, Alex Levac, Leila Farsakh, Ramzy Baroud, Soulayma Mardam Bey, Humane Rights Watch, Miko Peled, Hagar Shefaz, Amira Hass, Romana Rubeo, Noam Chomsky, Francesca Albanese, Alessandra Mecozzi, Berlin Migrant Strikers

Scrivi alla Roma e alla Juve: Non c’è gioco pulito nell’Israele dell’apartheid

Sempre più il mondo dello sport si sta schierando a favore dei diritti dei palestinesi.

Tuttavia, alcune squadre di calcio si stanno mettendo dalla parte sbagliata della storia, permettendo che i loro celebri nomi vengano usati per ripulire con lo sport i crimini israeliani contro i palestinesi.

Juventus e Roma hanno in programma amichevoli nell’Israele dell’apartheid nelle prossime settimane.

Squadre palestinesi, i cui giocatori hanno perso la vita o sono stati resi invalidi a causa dei soldati israeliani e di attacchi militari, hanno scritto alle squadre italiane esortandole fortemente a cancellare queste partite per non essere complici.

Aggiungete la vostra voce alla loro.

Scrivete subito alla Roma e alla Juve. Non c’è gioco pulito nell’apartheid israeliano.

I giocatori dell’Al Khader FC, Mohammad Ghneim (19 anni) e Zaid Ghneim (14 anni) e il calciatore prodigio della Palestine Football Academy, Thaer Yazouri (18 anni), sono stati uccisi dai soldati israeliani ad aprile e maggio di quest’anno.

Il giocatore del Balata FC Saeed Odeh (16 anni) è stato ucciso dai soldati israeliani l’anno scorso.

La Palestine Amputee Football Association è composta da giocatori che hanno perso l’uso degli arti a causa degli attacchi militari di Israele a Gaza.

È per questi e per altri giocatori, per tutti i palestinesi giovani e anziani che continuano a sognare, che le squadre palestinesi si sono impegnati a non rimanere in silenzio e di tracciare una linea di picchetto morale che non si deve attraversare.

Inviate un’e-mail alla Roma e alla Juve: Annullate le partite. Fatelo per Mohammad, Zaid, Thaer, Saeed, gli amputati e troppi altri.

Continuate a pronunciare i loro nomi. E contribuite a cacciare l’apartheid dal calcio.

Gentili dirigenti, membri del consiglio di amministrazione, giocatori e staff tecnico,

mi unisco alle squadre palestinesi che vi fanno un forte appello a non giocare nell’Israele dell’apartheid.

Israele, proprio come altri regimi oppressivi, invita squadre celebri come la vostra perché sa che questi eventi sportivi sono un’occasione d’oro per ripulirsi l’immagine del suo regime di apartheid con lo sport. Contribuiscono a fornire all’apartheid di Israele la copertura di cui ha bisogno per continuare impunemente la sua prolungata e brutale oppressione di tutti i palestinesi, compresi i calciatori.

Giocare una partita oggi nell’Israele dell’apartheid, mentre continua a uccidere, mutilare e arrestare giovani calciatori palestinesi, va contro i valori autentici alla base dello sport in generale e di questo bellissimo gioco in particolare. Sarebbe come giocare una partita nel Sudafrica dell’apartheid negli anni Ottanta.

Il mondo dello sport ha sanzionato la Russia per la sua invasione illegale dell’Ucraina, che dura da mesi. È ora di porre fine all’ipocrisia prendendo una posizione simile contro il regime pluridecennale di colonialismo e apartheid di Israele.

Giocare la partita nell’Israele dell’apartheid è una scelta. Si può scegliere di stare dalla parte giusta della storia, unendosi a un numero crescente di squadre e atleti che si battono per i diritti dei palestinesi. Oppure potete scegliere di giocare per la Squadra dell’Apartheid e far sì che questo rimanga per sempre nel libro della storia del vostro club.

Ascoltate le squadre palestinesi. Annullate la partita. Fatelo per:

Diamo un calcio all’apartheid in Israele: giocatori palestinesi scrivono alla Roma

Di seguito la lettera aperta di due squadre palestinesi che chiedono alla Roma di non giocare in Israele il prossimo 30 luglio l’”amichevole” con il Tottenham : Israele,condannata più volte dall’ONU,dal 1967 occupa da 55 anni l’intera Cisgiordania, di recente un voluminoso dossier redatto da Amnisty International ha definito Israele ” regime d’apartheid”.

La lettera è firmata da Balata Youth Center, il cui giocatore sedicenne Saeed Odeh è stato ucciso da soldati israeliani l’anno scorso, e dalla Palestine Amputee Football Association, squadra di amputati di Gaza che hanno perso arti a causa dei proiettili dei cecchini israeliani e/o durante blitz dell’esercito israeliano.

Vi scriviamo come Club calcistici palestinesi dei territori occupati della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sotto assedio. Sappiamo dell’intenzione di giocare una partita “amichevole” nell’Israele dell’apartheid. Vi preghiamo, in nome dello spirito e dei valori sportivi alla base di questo bellissimo gioco di non giocare in un Paese, Israele, che pratica l’apartheid.

Non c’è nulla come il senso di libertà che proviamo correndo per il campo, o il senso di euforia di quando vinciamo una partita.

Questi momenti di pura gioia sono troppo brevi e sempre interrotti quando dobbiamo tornare alla realtà della nostra vita sotto un “crudele sistema di oppressione e dominio”, quale ogni giorno subiamo e quale viene definito e documentato da Amnesty International.

I soldati israeliani sistematicamente sparano e uccidono i nostri giocatori: per mano dei soldati israeliani, solo nell’ultimo anno hanno perso la vita il 16enne Saeed Odeh, il 19enne Mohammad Ghneim, il 18enne Thaer Yazouri, e il 14enne Zaid Ghneim.

Le carriere sportive dei nostri atleti sono terminate perché mutilati dai soldati israeliani, come è stato per il 23enne Mohammed Khalil di Gaza, a cui hanno sparato ad entrambe le ginocchia. Di fatto, a Gaza esistono diverse squadre di giocatori che hanno subito amputazioni e perso arti a causa dei proiettili dei cecchini israeliani o durante assalti militari. I nostri stadi sono stati distrutti dalle bombe israeliane. I nostri giocatori vengono arrestati e arbitrariamente detenuti nelle carceri israeliane senza che esista o venga notificato un capo d’accusa. I soldati israeliani armati fanno irruzione nei nostri campi da gioco e sparano gas lacrimogeni durante le partite, anche quelle delle squadre giovanili. Israele ostacola e impedisce l’importazione delle attrezzature sportive.

È poi importante dire che, mentre la Federcalcio israeliana comprende, nelle sue serie, squadre degli insediamenti israeliani illegali sorti su terre palestinesi rubate, i posti di blocco militari israeliani impediscono a noi di spostarci nella nostra stessa terra, che sia per l’allenamento o per le partite.

Anche la nostra amata Coppa della Palestina ha dovuto subire rimandi ed è stata definitivamente interrotta perché Israele non ha permesso ai calciatori dei due club vincitori di viaggiare nella nostra terra per giocare la partita. Pensiamo solo un momento a cosa significhi: queste squadre hanno superato difficoltà apparentemente insormontabili poste dal regime israeliano di occupazione militare e di apartheid per raggiungere la cima della classifica, per poi vedersi arbitrariamente impedire di giocare la finale di campionato dal medesimo regime che quotidianamente le opprime.

Stiamo parlando da un punto di vista calcistico, ma quello di cui facciamo esperienza nello sport è anche la realtà di milioni di palestinesi che vivono la brutale violenza del regime di apartheid israeliano.

Lo stesso giorno in cui soldati israeliani hanno sparato al calciatore Thaer Yazouri, hanno sparato e ucciso la nota giornalista palestinese Shireen Abu Akleh. Gli stessi soldati hanno poi brutalmente attaccato il corteo funebre, assalito gli uomini che portavano il feretro e i partecipanti, un atto barbaro condannato anche da diverse autorità spirituali cattoliche e cristiane in Palestina.

Israele, in modo non dissimile da altri regimi di oppressione, propone queste partite amichevoli perché la considera una opportunità preziosa di sportswashing rispetto al regime di apartheid. Esattamente come il Sudafrica dell’apartheid lo utilizzò a suo tempo. Eventi sportivi con squadre famose come la Roma contribuiscono a fornire al regime di apartheid israeliano quella copertura propagandistica indispensabile per seguitare impunemente la brutale oppressione di tutti i palestinesi, ivi inclusi i calciatori.

In una recente intervista, l’allenatore dell’AS Roma José Mourinho ha risposto a una domanda sull’invasione illegittima dell’Ucraina da parte della Russia e sulle forme di dissenso messe in campo ricordando altre guerre in corso in tutto il mondo, tra cui gli attacchi di Israele ai palestinesi di Gaza. Ha affermato che una delle principali domande che si pone è: ‘cosa possiamo fare al riguardo’.

Ebbene, ecco una cosa che potete fare. Il vostro club è in una posizione privilegiata e unica per aiutarci a isolare il regime di apartheid di Israele fino a quando non rispetterà i nostri fondamentali diritti: esattamente come è avvenuto per il Sudafrica dell’apartheid, rifiutandosi di giocare in Israele, il quale da anni ha messo in atto un non meno brutale sistema di apartheid.

Vi preghiamo dunque di unirvi al numero senza precedenti di calciatori, squadre e atleti che hanno deciso di stare dalla parte giusta della Storia, rifiutando di rendersi complici dell’operazione di sportswashing portata avanti dal regime di apartheid israeliano.

I giocatori nostri compagni, che sono stati uccisi, mutilati, arrestati, a cui è stato negato perfino il diritto di giocare, sono per sempre nei nostri cuori. È per loro, e per i palestinesi, giovani e anziani, che continuano a sognare, che non possiamo né vogliamo rimanere in silenzio.

Non c’è assolutamente nulla di “amichevole” nell’uccisione da parte di Israele di giovani calciatori e nell’oppressione di milioni di palestinesi. Per favore, non giocate nell’Israele dell’apartheid.

Medio Oriente e giornalismo mancante su conflitto e pace – Johan Galtung

La cultura locale sembra richiedere una breve introduzione nella propria lingua prima di passare all’inglese globalizzato. Io seguo l’esempio:

[Jeg tror ikke man kan snakke om Midtösten, og spesielt ikke legge frem et fredsforslag slik jeg har tenkt å gjöre, uten dyp medfölelse med verdens jöder for shoa, og med palestinenserne for okkupasjon og generasjoner i leire.  Jeg har levd nær begge siden jeg begynte å sette meg inn i konflikten en natt i januar 1964 på jernbanestasjonen i Gaza og tror jeg forstår og opplever traumenes dybde.  Ordet “fred” blir problematisk, en dröm et sted mellom forræderi og oppgivelse.  En oppfordring uten like].

Traduzione dal norvegese (a cura di TMS editor):

Non credo sia possibile parlare del Medio Oriente, e specialmente presentare una proposta di pace, come intendo fare, senza una profonda simpatia con gli ebrei del mondo per la shoah, e con i palestinesi per l’occupazione e le generazioni vissute nei campi [profughi]. Sono vissuto accosto ad entrambi da quando una notte di gennaio 1964 alla stazione ferroviaria di Gaza cominciai a capire il conflitto, dacché credo di capire e provare la profondità dei traumi. La parola “pace” diventa problematica, un sogno da qualche parte fra tradimento e abbandono. Un invito senza uguali.

Stando così le cose, mi si lasci procedure con cautela. Comincio allora con due immagini di affari internazionali, affari umani a dire il vero, due discorsi: l’approccio securitario e l’approccio pacifista; che competono per la nostra attenzione trattando la stessa preoccupazione per la violenza ma in modo diametralmente opposto:

L’approccio securitario si basa su quattro componenti:

L’approccio funziona quando contendenti cattivi/forti sono indeboliti da sconfitta o deterrenza, e/o convertiti a diventare buoni.

L’approccio pacifista si basa pure su quattro componenti:

L’approccio funziona mediante risultati accettabili/sostenibili.

L’approccio securitario presuppone una forza superiore (di qualunque genere, Sun Tzu o Clausewitz), che implica disuguaglianza.

L’approccio pacifista presuppone un esito conflittuale accettabile a tutti i contendenti e sostenibile, che implica uguaglianza.

Credo siano riconoscibili come copioni in filigrana a pensieri, discorsi e azioni su tutta quanta la tematica del Medio Oriente – o di qualunque altro conflitto, dopo. I discorsi si traducono in giornalismo come due stili:

I. ORIENTATO A VIOLENZA/GUERRA?

orientato in generale a somma zero

cause ed effetti nell’arena,

chi ha scagliato la prima pietra;

focus solo su effetto visibile della

rende le guerre opache/segrete

vedere “loro” come il problema,

focus su chi prevale in guerra

più così, peggiore l’arma

reattivo: aspetta che avvenga la violenza prima di riferire

aiuta le “nostre” coperture/bugie

focus sulla “loro” violenza  e  la ”nostra”  sofferenza; subìta dai   maschi nel loro vigore

impreca contro i “loro” malfattori

focus sui pacificatori d’élite, da loro megafono

nasconde iniziative di pace prima che sia a portata la vittoria

focus su trattato, istituzione, la società controllata

lascia il campo per un’altra guerra,

ritorna se riavvampa la vecchia storia

esplora la formazione del conflitto,

x parti, y obiettivi, z problematiche

orientato in generale a un “win-win”

focus anche su effetti invisibili della

dà voce a tutti i contendenti;

vedere conflitto/guerra come problema,

focus su creatività nel conflitto

umanizzazione di tutti i versanti;

più così, peggio le armi

proattivo: rtferisce anche prima che avvenga la violenza/guerra

espone le non-verità su tuttii i versanti

focus sulla violenza da tutti i versanti e la sofferenza su tutti i versanti; subìta anche da donne, anziani, bambini

impreca contro tutti i malfattori

focus sui pacificatori del popolo, dando voce ai senza-voce

esalta le iniziative di pace, anche per evitare ulteriore guerra

focus su struttura, cultura, sulla società  pacifica(ta)

La scelta dello stile giornalistico è una scelta implicita del discorso da svolgere, attingendo a quel copione soggiacente. E io sostengo, ovviamente, che la seconda colonna è in complesso mancante.

In linea di principio abbiamo dieci tipi di media: per leggere, ascoltare, osservare a livello locale, nazionale e globale, e l’internet, il solo che approccia il livello globale significativamente. Che i media nazionali rispecchino le élite nazionali in posizione corretta o meno non è sorprendente, il che ci lascia accessibili i media locali come i più promettenti per un discorso di pace. Però, essendo locali sono probabilmente al loro meglio sui conflitti di livello micro- e meso-, mentre a livello macro e mega sono oltre il proprio orizzonte. Dunque siamo piuttosto malmessi. Ma la cosa può migliorare.

Nella Tabella ci sono quattro dimensioni principali che definiscono la cesura fra i due stili giornalistici. In uno l’essenza del discorso è l’atto violento e l’attore violento e se su questi si possa prevalere con una vittoria. Nell’altro l’essenza del discorso è un conflitto, cioè un focus su almeno due attori. Un tantino più complesso intellettualmente, in altre parole, ma non poi molto.  Quegli attori sono di solito disponibili a interviste; anzi, ambirebbero spegare i propripunti di vista sul conflitto. Che è appunto ciò su cui si focalizzerebbe il giornalismo di conflitto.e-pace, il suo pane:

“Che cosa c’è, secondo lei, sotto questo atto di violenza?”

“Che cosa, secondo lei, potrebbe essere un modo eventuale di risolvere quel conflitto?”

Giornalisti, comprendete queste due domande nel vostro repertorio standard e allora siamo in un giornalismo di pace. Più avanti potremmo chiedere lo stesso livello d’expertise che per, diciamo, sanità e finanza. Come si è espresso una volta il caporedattore del Toronto Star: Tutto ciò che chiedete è: date una pagina alla pace!  il punto non è che i giornalisti debbano patrocinare qualunque cosa; non dovrebbero far altro che rendere la pace più visibile, come segni di vita in un paziente in coma. Mentre invece il primo stile giornalistico di cui sopra si focalizzerebbe su chi vince, considerando qualunque tendenza a capire l’altra parte come un tentativo di giustificarne la violenza.

La tabella è auto-esplicativa e ampi commenti saranno presto disponibili su Reporting Conflict: Un’introduzione al Giornalismo di Pace, di Jake Lynch, Annabel McGoldrick e il sottoscritto. Concretamente, ecco cinque modi di fare giornalismo di pace, cinque “angolature di pace”:

Un documento secretato rivela che le “zone di tiro” dell’IDF sono costruite per dare terra ai coloni – Yuval Abraham

In una riunione top secret tenutasi nel 1979, qui per la prima volta svelata, l’allora Ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò che le zone di tiro avevano lo scopo di creare “riserve di terra” per gli insediamenti coloniali, nel contesto del suo più ampio piano di stabilire “confini etnici” tra ebrei e palestinesi.

Un documento inedito rivela che Israele ha creato “zone di tiro militari” nella Cisgiordania occupata come meccanismo per trasferire terreni agli insediamenti coloniali. Quelle zone di tiro, istituite apparentemente ai fini di addestramento militare, sono state realizzate nell’ambito di una strategia più ampia rivolta a creare un “confine etnico” tra ebrei e palestinesi.

Secondo il verbale di una riunione “top secret” del 1979 della Settlement Division della World Zionist Organization [la Divisione per le colonie, è un ente privato che agisce nell’ambito dell’Organizzazione Sionista Mondiale ma è interamente finanziato da fondi pubblici israeliani. Agisce come agente governativo nell’assegnazione di terre ai coloni ebrei in Cisgiordania, ndt.] che lavora in tandem con il governo israeliano, l’allora ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò come la realizzazione di zone di tiro in tutta la Cisgiordania avesse come unico obiettivo finale quello di fornire la terra ai coloni israeliani.

“Essendo la persona che ha fatto nascere nel 1967 le zone di tiro militari, ho voluto destinarle tutte a uno scopo: fornire un’opportunità per l’insediamento coloniale ebraico nell’area”, disse Sharon durante la riunione. “Non appena la Guerra dei Sei Giorni finì, ero ancora di stanza nel Sinai con la mia divisione. Quando ho disegnato queste zone mi trovavo nel Sinai. Le zone di tiro sono state create per uno scopo: costituire delle riserve di terra per le colonie”.

40 anni dopo, le osservazioni di Sharon hanno avuto conseguenze di vasta portata, poiché migliaia di palestinesi a Masafer Yatta, nelle grandi colline a sud di Hebron e nella Valle del Giordano sono attualmente sotto diretta minaccia di espulsione dopo che la loro terra è stata dichiarata zona di tiro militare.

La Divisione delle Colonie si era riunita per discutere la creazione di insediamenti coloniali nelle aree della valle del Giordano dichiarate zone di tiro, e quindi chiuse ai palestinesi. Sharon rese noto di aver delineato i confini delle zone di tiro sin dall’inizio e ordinato il trasferimento delle basi militari in Cisgiordania in modo che la terra fosse sequestrata a fini di insediamento coloniale.

Sharon sarebbe diventato ancora più esplicito riguardo ai suoi piani per le zone di tiro. Solo due anni dopo, durante un altro incontro della Divisione per le Colonie, il ministro affermò che era stata decisa [la realizzazione, ndt.] della zona di tiro 918 al di sopra di Masafer Yatta [insieme di 19 frazioni palestinesi nelle colline meridionali di Hebron nella Cisgiordania meridionale, ndt.] per fermare la “diffusione degli abitanti dei villaggi arabi sul fianco della montagna verso il deserto”. A maggio l’Alta Corte israeliana ha dato il via libera all’espulsione di oltre 1.000 palestinesi da otto villaggi di Masafer Yatta per consentire all’esercito di addestrarsi nell’area.

All’udienza dell’Alta Corte lo Stato ha affermato che la distruzione di queste comunità – che gli abitanti affermano essere lì almeno dalla fine del 19° secolo – è necessaria per l’addestramento. La scorsa settimana l’esercito ha iniziato a inviare carri armati, impiegare armi da fuoco e posizionare mine vicino alle case del villaggio.

Due ulteriori documenti portati alla luce da +972 fanno chiarezza sulla motivazione politica alla base della creazione di colonie e zone di tiro nelle colline meridionali di Hebron. In base a quanto dichiarato da Sharon, egli ha cercato di creare una “zona cuscinetto” tra i cittadini beduini di Israele nel Negev/Naqab e gli abitanti palestinesi della Cisgiordania meridionale, dove si trova Masafer Yatta.

“Esiste un fenomeno, in corso da diversi anni, di contiguità fisica tra la popolazione araba del Negev e gli arabi delle colline di Hebron. Si è creata una situazione in cui il confine [della terra di proprietà araba] si è spinto più profondamente nel nostro territorio”, disse Sharon al comitato nel gennaio 1981. “Dobbiamo creare rapidamente una zona cuscinetto di insediamenti coloniali che si insinui tra le colline di Hebron e la comunità ebraica del Negev. Sharon è arrivato persino a etichettare questa zona cuscinetto come un “confine etnico” che avrebbe impedito ai palestinesi della Cisgiordania di raggiungere la “periferia di Be’er Sheva [città del sud di Israele, la più grande del deserto del Negev, ndt.]”.

I verbali di un incontro del 1980 rivelano come Sharon ritorni sulla stessa questione: “A Hura [una cittadina beduina nel Negev/Naqab] c’è una comunità araba in crescita di migliaia di persone. Questa comunità ha contatti con la popolazione araba delle colline meridionali di Hebron. Pertanto il confine passerà praticamente nelle vicinanze di Be’er Sheva, vicino a Omer [una ricca città del Negev-Naqab]. Supponiamo che io aggiunga altre decine di migliaia di ebrei a Dimona o Arad [due città operaie nel sud di Israele], e che li voglia lì. Come colmerò questo divario? Come farò a creare un cuneo tra i beduini del Negev e gli arabi delle colline meridionali di Hebron?

Sharon avrebbe presto avuto una risposta alla sua domanda. Quell’anno Israele dichiarò 30.000 dunam [3.000ettari] di terra nella punta meridionale della Cisgiordania delle zone di tiro militari. Come Sharon aveva ben chiaro, queste zone furono realizzate come confini etnici: a sud delle zone militari c’erano dozzine di villaggi beduini non riconosciuti all’interno di Israele, mentre a nord e ad ovest c’erano le città palestinesi e le cittadine delle colline a sud di Hebron. All’interno della zona militare rimasero le migliaia di palestinesi che ora devono affrontare un trasferimento di popolazione.

Durante queste discussioni Sharon stabilì persino la creazione di nuovi insediamenti coloniali ebraici nel Negev-Naqab, come Meitar, così come nelle colline occupate a sud di Hebron, come Maon e Susiya, che avrebbero fatto parte della stessa zona cuscinetto.

Per Sharon, come per molti altri leader israeliani, la nozione stessa di territorio arabo contiguo era una minaccia diretta alle ambizioni dello Stato di controllare quanta più terra possibile su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.]. Ancora oggi, le colonie ebraiche in Cisgiordania e nel Negev/Naqab rimangono una parte cruciale della strategia di controllo di Israele.

Secondo un rapporto di Kerem Navot, un’organizzazione [israeliana, ndr.] che tiene traccia degli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata, nel 2015 circa il 17% della Cisgiordania è stata designata come sede di varie zone di tiro militari, in particolare nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e lungo il confine orientale con la Giordania. La maggior parte di queste assegnazioni furono fatte immediatamente dopo l’occupazione della Cisgiordania nel 1967 e all’inizio degli anni ’70. Secondo il rapporto l’esercito utilizza solo il 20% circa di queste zone per l’addestramento.

Alcuni esempi recenti mostrano che Israele si sta spingendo ancora più in là dei cuscinetti etnici di Sharon tra ebrei e palestinesi. Oggi i palestinesi in tutta la Cisgiordania vengono espulsi dalle zone di tiro, mentre i coloni stanno lentamente prendendo il loro posto.

Nell’ultimo decennio, ad esempio, i coloni hanno stabilito 66 cosiddetti avamposti agricoli, che occupano enormi appezzamenti di terra in Cisgiordania, nonostante abbiano pochi residenti. Circa un terzo di quel territorio, 83.000 dunam [8.300 ettari], che i coloni hanno conquistato attraverso il pascolo, si trovano all’interno di zone di tiro militari. Queste aree – almeno sulla carta – dovrebbero essere chiuse sia agli ebrei che ai palestinesi. I soldati israeliani nella Valle del Giordano hanno persino ammesso apertamente che consentono ai coloni di utilizzare le zone di tiro, mentre vietano ai palestinesi di fare lo stesso.

Dror Etkes, a capo di Kerem Navot, ha detto a +972 che negli ultimi anni c’è stato un aumento significativo del subentro di coloni nelle zone di tiro. “Questa è la logica conseguenza di quanto fece Ariel Sharon 55 anni fa. Le fattorie avamposto coloniale sono state progettate in modo tale da consentire l’occupazione di vaste aree di pascolo, che nell’agosto del 1967 erano state dichiarate zone di tiro militari”, afferma Etkes.

Questo meccanismo si sta ripetendo nelle colline meridionali di Hebron. L’anno scorso la Divisione per le Colonie ha assegnato un terreno nella zona di tiro 918 a uno dei coloni che vivono nelle vicinanze. Le foto aeree mostrano che nella zona di tiro sono state costruite nuove strutture appartenenti a tre avamposti coloniali – Mitzpe Yair, Avigayil e Havat Ma’on – stabiliti nell’area nel 2000. L’anno scorso, i coloni hanno persino cercato di realizzare un nuovissimo avamposto coloniale direttamente all’interno della zona di tiro.

Che le zone di tiro siano utilizzate per rafforzare il progetto di colonizzazione e l’espropriazione della popolazione nativa dei territori occupati è ormai un segreto di Pulcinella e tutti vi sono coinvolti, tranne i palestinesi.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

LA MORTE DI UN LAVORATORE PALESTINESE, O COME LO DEFINISCE ISRAELE: DI UN TERRORISTA – Gideon Levy e Alex Levac

Nabil Ghanem ha lavorato nelle ristrutturazioni edili in Israele per 35 anni senza permesso. Dormiva nei campi e tornava a casa dopo una o due settimane. La scorsa settimana un soldato gli ha sparato a morte mentre cercava di attraversare la barriera verso Israele.

Dovremmo iniziare con i documenti relativi alla morte. Ecco quello del Rabbinato Militare Capo delle Forze di Difesa Israeliane, unità di identificazione e sepoltura: “Per il conducente: Re: trasporto del corpo del nemico deceduto. Dettagli del trasporto: Destinazione: Brigata Territoriale Samaria. Trasportatore: Magen David Adom (Servizio Medico di Emergenza). Nome del conducente: Itamar. Dettagli del deceduto: Braccialetto numero: 200041086. Nome del deceduto: Ghanem Nabil”.

La lettera del Tenente Gal Cohen, ufficiale di sezione, Divisione Operazioni. “Re: Trasferimento del corpo di Nabil Ghanem (presente illegalmente), deciso dallo Shin Bet, dal Centro Medico Meir all’IDF, su richiesta dell’IDF. Il 19 giugno, una forza del Battaglione 282/334 del Corpo di artiglieria ha sparato, secondo la procedura, contro un infiltrato che ha cercato di attraversare la barriera vicino a Qalqilyah. Di conseguenza, il soggetto è rimasto gravemente ferito ed è stato trasportato al Centro Medico Meir. In seguito è deceduto per le ferite riportate. Chiediamo il trasferimento del corpo del palestinese in un’ambulanza militare dal Centro Medico Meir all’IDF”.

Ecco come appare la morbosa burocrazia dell’occupazione. La prassi per il trasporto di un sacco di patate risulterebbe più umana.

Nabil Ghanem, 53 anni, padre di sei figli, che ha lavorato negli ultimi 35 anni nella ristrutturazione di case in Israele, principalmente nella città di Rosh Ha’ayin, nel centro del Paese, è stato ucciso la scorsa settimana a sangue freddo quando i soldati hanno gli sparato due proiettili mortali nella schiena mentre fuggiva. È indicato nei moduli dell’esercito che descrivono in dettaglio la sua morte come “nemico deceduto”, “presente illegalmente”, “infiltrato”, “terrorista” e “palestinese”. Tutti quei termini dispregiativi per uno sfortunato operaio edile il cui unico desiderio era provvedere alla sua famiglia, come ha fatto per decenni in condizioni disumane.

“Ciò che ci fa male è che dicono che Nabil fosse un terrorista. Perché lo chiamano terrorista?” ci hanno chiesto i suoi fratelli e figli, quasi tutti che lavorano in Israele e parlano ebraico, questa settimana. E avevano anche altro da dire sulla mancanza di rispetto per i morti.

Sarra, un villaggio a Ovest di Nablus in Cisgiordania. I membri maschi della famiglia di Ghanem erano riuniti nella sua casa, in lutto per la loro perdita. Nabil fu arrestato durante la Prima Intifada (1987-1993) e condannato a tre anni di carcere per lancio di pietre e altri reati. Da allora gli è stato negato l’ingresso in Israele. Ma a Sarra, la cui terra è stata rubata dall’insediamento di Havat Gilad, non c’è lavoro e ha iniziato a intrufolarsi regolarmente in Israele per guadagnarsi da vivere.

Negli anni ha speso ingenti somme di denaro in avvocati per cercare di far revocare il divieto d’ingresso in Israele. Ma a nulla è servito. È stato arrestato per “presenza illegale” almeno sei volte e ogni volta condannato a diversi mesi di carcere. Da allora, gli è stato negato l’ingresso non solo dal servizio di sicurezza dello Shin Bet, ma anche dalla polizia israeliana, fino al 2033. Le multe e la cauzione che è stato costretto a pagare ammontavano a decine di migliaia di shekel nel corso degli anni. Alcuni mesi fa, ha pagato una multa di 4.000 shekel (1.100 euro) per essere rilasciato dal carcere, ma Nabil non ha desistito. Non aveva altro modo di provvedere alla moglie, ai quattro figli e alle due figlie.

Partiva per Israele la domenica o il lunedì, dormiva negli uliveti e nei campi tra Kafr Qasem e Rosh Ha’ayin e tornava a casa una o due settimane dopo. Spesso era costretto a tornare indietro; sarebbe arrivato dalla parte israeliana solo per scoprire che non c’era lavoro disponibile. In genere usciva di casa verso le 3 del mattino in un taxi condiviso di lavoratori diretto al posto di blocco di Eyal a Qalqilyah. Lì, tra le numerose aperture nella barriera di separazione, ha tentato la fortuna per arrivare in un posto dove il lavoro era disponibile. In una giornata propizia è riuscito ad arrivare a Rosh Ha’ayin verso le 8 del mattino. Molti dei residenti locali lo conoscevano, dopo tanti anni. Ci è stato detto che per tutta la sua vita e per tutti gli anni in cui ha lavorato in Israele, il suo unico cosiddetto reato era di essere presente illegalmente, secondo le leggi dell’occupazione.

Circa due settimane fa Nabil è tornato a casa, dopo 10 giorni di lavoro a Rosh Ha’ayin, per partecipare al matrimonio di suo nipote Nur, figlio di suo fratello Shaher. I festeggiamenti si sono svolti durante il giovedì e il venerdì, ed era di buon umore, dicono i membri della famiglia. Sabato sera, 18 giugno, si è seduto sotto il portico di casa sua con i suoi fratelli e figli e ha detto loro che intendeva entrare in Israele un’ultima volta, per riscuotere il denaro che gli era dovuto da uno dei suoi datori di lavoro. Il pagamento serviva per coprire l’imminente matrimonio di suo figlio Moataz, 31 anni e ingegnere. Dopo di che, Nabil disse alla sua famiglia che non sarebbe tornato alla vita difficile e pericolosa che aveva condotto fino a quel momento.

“Era stanco”, dice ora suo nipote Ahmed. “Dormire nei campi, partire alle 3 del mattino, tutto il pericolo, il posto di blocco, la barriera, i soldati e i coloni. Entrare o non farcela, e poi dover tornare a casa. Ci ha detto: basta, ne ho abbastanza”. La famiglia ricorda anche che Nabil si comportò in modo alquanto strano quella sera. “Non era mio zio”, aggiunge Ahmed, senza approfondire.

Nabil aveva pianificato di “scendere” in Israele, come dicevano, lunedì, quando c’era meno traffico e meno pericolo. Dall’ondata di attacchi terroristici degli ultimi mesi, l’IDF ha inviato grandi forze lungo il perimetro della barriera di sicurezza, rendendo più difficile e rischioso che mai entrare in Israele clandestinamente. Ma quella notte, Nabil decise che sarebbe partito già il giorno dopo, domenica, e chiese a uno dei suoi figli, Muntassem, 21 anni, di accompagnarlo. Padre e figlio lavoravano spesso insieme a Rosh Ha’ayin.

Sono partiti alle prime luci dell’alba, intorno alle 5 del mattino, e hanno preso un taxi condiviso fino al posto di blocco di Eyal. Quando arrivarono alla barriera, hanno visto dei soldati e hanno deciso di cercare un’altra apertura nella recinzione, da qualche parte tra Qalqilyah e la città araba israeliana di Jaljulya. Muntassem ha ricordato questa settimana che mentre stavano aspettando, suo padre gli aveva detto di non cercare mai di scappare dai soldati, spiegando: “Se vedi soldati, non scappare. Niente panico e non aver paura. Al massimo ti arresteranno”…

UN ANNO E MEZZO DOPO ESSERE STATO FERITO DAI SOLDATI ISRAELIANI, UN GIOVANE PASTORE GIACE PARALIZZATO IN UNA GROTTA – Gideon Levy e Alex Levac

I soldati israeliani hanno sparato a bruciapelo ad Harun Abu Aram quando ha cercato di impedire loro di confiscare un generatore. L’esercito afferma che le vite dei soldati erano in pericolo e nessuno è stato punito. Ora Harun languisce sul pavimento della grotta della sua famiglia, paralizzato dalla testa in giù.

All’inizio, gli occhi devono abituarsi alla scarsa illuminazione della grotta. Poi, l’immagine si rivela in tutto il suo orrore: sul pavimento giace il corpo di un uomo, immobile, le gambe sollevate su una sedia di plastica, la testa avvolta in un asciugamano, gli occhi chiusi. Giace così per la maggior parte della giornata, forse dormendo, forse solo senza la volontà di aprire gli occhi. Ha giaciuto così per mesi e probabilmente rimarrà così per sempre. Suo padre gli asciuga il sudore dalla faccia, un tubo gli aspira il catarro dalla gola, un asciugamano gli è avvolto intorno all’inguine, una coperta gli copre il corpo. La vista è terribile. Dopo lo shock iniziale, perché niente ti prepara all’orrore, la compassione e l’inevitabile frustrazione, arriva un sentimento di rabbia contro uno Stato che abbandona una vittima dei suoi soldati in questo modo senza assumersi alcuna responsabilità per l’accaduto.

Il soldato che ha sparato ad Harun Abu Aram, il giovane che giace sul pavimento della grotta, paralizzato a vita, non è mai stato assicurato alla giustizia. La vita di Harun è giunta al termine, di fatto, il giorno in cui gli hanno sparato al collo circa un anno e mezzo fa, mentre la vita del soldato che gli ha sparato è proseguita indisturbata. Probabilmente non ricorda nemmeno come ha sparato al giovane pastore, a bruciapelo, quando Abu Aram ha cercato di impedire ai soldati di confiscare il generatore del suo vicino. Senza un generatore, non c’è vita nelle grotte delle colline a Sud di Hebron. La minima punizione che avrebbe dovuto essere inflitta al soldato e ai suoi commilitoni, gli intrepidi confiscatori dei generatori, gli audaci “combattenti” delle Forze di Difesa Israeliane, era di costringerli a visitare la grotta che fa parte della comunità di pastori di Khirbet al-Rakiz, ad entrare, stare lì, osservare la sua opera, e poi chinare la testa per la vergogna.

L’episodio è avvenuto il 1 gennaio 2021, il 24° compleanno di Harun. Harun è nato con l’aiuto di un’ostetrica di Yatta, nella stessa grotta in cui ora giace, incapace di muoversi. Un video girato da un residente ha documentato l’atto in cui i soldati hanno cercato di prendere il generatore, nel tentativo di spingere gli abitanti ad andarsene. Abu Aram e molti altri giovani cercano di impedirgli di prenderlo. Un gruppo tira da una parte, un altro tira dall’altra in una danza che nessuno sembra rendersi conto che diventerà una danza di fuoco che si concluderà con il terribile sparo che ha colpito Harun al collo. Il momento esatto in cui è stato sparato il colpo non è visibile nel video, solo il suo suono e poi le grida delle donne che hanno assistito allo svolgersi degli eventi, seguite dall’immagine di Harun Abu Aram che giace immobile a terra.

Il padre di Harun, Rasmi Abu Aram, dice che i funzionari dell’Amministrazione Civile che lo hanno interrogato dopo l’incidente gli hanno chiesto chi avesse sparato a suo figlio. Poi sono arrivate le bugie dell’IDF: le “indagini” che ne sono seguite hanno portato l’esercito alla conclusione che i soldati dovevano affrontare un “chiaro e reale rischio per le proprie vite”. Il cuore sanguina di fronte a questo pericolo immaginario. Un chiaro e reale rischio per la loro vita, da chi? Da un piccolo gruppo di pastori disarmati che cercano di salvare il loro generatore? Dopotutto, i video non mentono e non ci sono immagini che mostrino pericoli in agguato per i soldati, a parte spinte e spintoni reciproci e un tiro alla fune sul generatore, con urla in sottofondo. Niente di tutto ciò rappresentava un rischio, nemmeno per un unico capello di un solo soldato. Il colpo è stato accidentale, ha concluso l’indagine dell’IDF. I suoi soldati sanno solo sparare a bruciapelo quando la loro missione è confiscare un generatore? Non hanno altre capacità e tali errori devono davvero rimanere impuniti?

Ma tutto questo è solo storia per la famiglia Abu Aram, le cui vite da allora sono diventate insopportabili in un modo che non può essere descritto a parole. Subito dopo l’incidente, l’Amministrazione Civile israeliana ha tolto il permesso di lavoro a Rasmi, il padre, un lavoratore di 54 anni che lavorava nella pavimentazione di strade in Israele. Questo è ciò che fa l’Amministrazione con le famiglie di ogni vittima dell’IDF, nel caso in cui decidessero di vendicarsi.

Israele non si è assunto alcuna responsabilità per l’incidente e non ha pensato di fornire alcun aiuto riabilitativo o indennizzo finanziario, anche se tecnicamente è al di là degli obblighi di legge. Inoltre, lo scorso anno l’Amministrazione Civile è arrivata al punto di confiscare tre delle tende della famiglia, nel tentativo di scacciarle, anche dopo che il figlio è diventato così gravemente disabile. Inoltre, rifiuta il permesso alla famiglia di costruire una stanza dove il figlio possa vivere la sua vita in condizioni un po’ più confortevoli di quelle della grotta, e non permetterà la pavimentazione di una strada di accesso alla casa ai piedi della collina. E così, Abu Aram giace sul pavimento della grotta mentre i suoi genitori e le sue sorelle si prendono cura di lui con grande dedizione, giorno e notte.

Rasmi indossa una maglia grigia con il logo dell’azienda Electra, a ricordo dei giorni in cui poteva ancora lavorare in Israele. Dopo l’infortunio del figlio, ha smesso di lavorare. La famiglia possiede 10 pecore e un piccolo orto alle pendici della collina; con questo dovrebbero sostenersi e prendersi cura di Harun. Le sue medicine e i pannoloni da soli gli costano tra i 5.000 e i 7.000 shekel (tra i 1.400 e i 1.950 euro) al mese. Non è chiaro da dove ottengano questa quantità di denaro. C’è un gruppo di rispettabili israeliani che li aiuta e in passato anche alcune ONG, ma la parte che avrebbe dovuto pagare per l’ “errore” si rifiuta cinicamente di farlo. L’avvocato Hussein Abu Hussein sta attualmente portando avanti una causa legale contro l’esercito per cercare di costringerlo a pagare un risarcimento ad Abu Aram.

La casa di famiglia qui, fatta di pietra, è stata demolita dall’Amministrazione Civile nel 2020. Dopotutto, questa è la Zone di Fuoco 918. Tale distruzione, ovviamente, avviene solo quando sono coinvolti pastori palestinesi, mai i residenti degli insediamenti e avamposti israeliani circostanti, che includono il vicino avamposto di Ma’aleh Avigail.

Rasmi e sua moglie Farissa, 42 anni, hanno cinque figlie e due figli. Circa un anno prima che Harun fosse ferito, era stato arrestato per aver risieduto illegalmente a Be’er Sheva, dove lavorava per vivere. Per questo è stato condannato a quattro mesi di reclusione. Poco tempo prima che gli sparassero, si era fidanzato con una ragazza di uno dei villaggi vicini nella regione di Masafer Yatta. Il fidanzamento è stato annullato a causa della sua situazione. Ora Harun probabilmente non si sposerà mai.

In quel tragico venerdì, le forze dell’esercito arrivarono per demolire strutture appartenenti ai vicini della famiglia Abu Aram. Gli scontri sono iniziati su una strada sterrata nelle vicinanze, i soldati hanno sparato in aria e Harun ha visto uno dei soldati spingere e colpire suo padre. Si è precipitato sul luogo dello scontro, che può essere visto dalla tenda degli ospiti, dove ci siamo intrattenuti questa settimana, per difendere suo padre. Successivamente i militari hanno tentato di confiscare il generatore ai vicini, e poi è avvenuta la sparatoria, proprio davanti a Rasmi. Ha portato rapidamente il figlio ferito, che pensava fosse morto, nell’auto di un vicino. Ma poi i soldati hanno sparato alle gomme del mezzo che non ha potuto muoversi. Un altro veicolo è arrivato, dal villaggio di A-Tuwani, ma i soldati hanno bloccato la strada di uscita.

Rasmi ricorda ora che un soldato ha puntato il fucile contro l’auto in cui veniva evacuato il figlio ferito; è stato costretto a tornare indietro. I residenti sono poi riusciti a portare Harun nel vicino villaggio di Karmil, dove ha ricevuto i primi soccorsi, l’IDF non ha pensato di soccorrerlo dopo la sparatoria, e poi è arrivata un’ambulanza palestinese che lo ha portato all’ospedale di Yatta. Dopo poco, i medici hanno informato la famiglia che non avevano i mezzi per fornire un trattamento adeguato ad Harun, che è stato portato all’ospedale Al-Ahli di Hebron. È stato ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale per oltre quattro mesi e mezzo.

I medici hanno detto ad Abu Arams che un proiettile aveva trapassato il collo del figlio recidendogli il midollo spinale. “È una testa senza corpo”, ha detto uno di loro. Rasmi ha deciso di trasferire Harun in un centro di riabilitazione in Israele. L’Autorità Palestinese ha rifiutato di finanziare il ricovero sostenendo che non c’era spazio nelle strutture di riabilitazione israeliane. Tuttavia, con l’aiuto dell’ONG Medici per i Diritti Umani, Rasmi ha contattato il Centro di Riabilitazione Reuth di Tel Aviv, che ha accettato di prendere Harun. Trascorse lì cinque mesi al costo di quasi 100.000 shekel (28.000 euro) al mese, una somma che la sua famiglia doveva trovare; l’ONG Medici per i Diritti Umani ha contribuito.

I genitori di Harun si sono avvicendati a turno, ciascuno trascorrendo tre settimane al fianco di Harun. Ma poi, senza preavviso, le sue condizioni sono peggiorate e i medici sono stati costretti a trasferirlo all’ospedale di Ichilov, dove è rimasto per altre quattro settimane. “Brave persone”, come le chiama Rasmi, lo hanno aiutato a sostenere le spese del ricovero lì. A quel punto Rasmi voleva rimandare suo figlio a Reuth ma non c’era posto, quindi riportò Harun nella grotta di Khirbet al-Rakiz che è la loro casa, molto probabilmente per il resto della sua vita…

La Palestina e lo Stato – Leila Farsakh

La maggior parte delle lotte per la decolonizzazione hanno perseguito la creazione di uno Stato-Nazione sovrano indipendente come diritto sancito dal diritto internazionale con la Risoluzione 1514 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1960, che ha definito il colonialismo un crimine e ha specificato che “tutte le persone hanno il diritto inalienabile alla piena libertà, l’esercizio della loro sovranità e l’integrità del loro territorio nazionale. Questa Risoluzione garantiva alle popolazioni colonizzate il diritto riconosciuto a livello internazionale all’indipendenza politica e all’autodeterminazione. Ma per alcuni teorici anticolonialisti, come Frantz Fanon e Aimé Césaire, il diritto all’autodeterminazione non implica necessariamente la creazione di uno Stato-Nazione, poiché non vi è alcuna garanzia che un tale Stato renderebbe liberò il suo popolo. Per questi teorici, l’autodeterminazione richiede l’istituzione di sistemi politici responsabili e inclusivi che possono assumere varie forme. La maggior parte dei movimenti anticolonialisti, tuttavia, ha considerato lo Stato-Nazione necessario per la liberazione, dato che afferma il diritto delle persone ad avere diritti, come sosteneva Hannah Arendt, e quindi a concretizzare la propria sovranità.

Negli ultimi 50 anni, il movimento nazionale palestinese ha discusso la questione se il raggiungimento di uno Stato palestinese segnerebbe la fine della colonizzazione della Palestina da parte del movimento sionista. I palestinesi hanno a lungo considerato il sionismo un progetto coloniale europeo e vi hanno resistito dal momento in cui la Gran Bretagna ha approvato il movimento nazionale ebraico nel 1917. Ma le idee sono cambiate nel tempo circa i mezzi migliori per liberare i palestinesi dal colonialismo e quale forma precisa dovrebbero assumere l’autodeterminazione e la libertà. Molti palestinesi oggi sostengono che la ricerca di uno Stato in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza entro i confini del consenso internazionale sulla soluzione dei due Stati ha compromesso i loro diritti, come il diritto di ritorno, e sempre più frammentato il popolo palestinese e indebolito il loro movimento nazionale. Altri sostengono che uno Stato palestinese, anche entro questi limiti, sia un passo necessario, anche se insufficiente, verso la realizzazione della liberazione palestinese. Molti, tuttavia, ora rifiutano la soluzione dei due Stati come un progetto fallito e i dibattiti palestinesi sulla decolonizzazione ruotano invece attorno ai modelli di una soluzione a uno Stato, uno Stato binazionale o un processo che trascende la struttura dello Stato-Nazione.

La storia della statualità come primo passo verso la liberazione

Durante i tre decenni di governo del Mandato Britannico, i nazionalisti palestinesi hanno chiesto uno Stato democratico sovrano con uguali diritti per tutti i cittadini che vivono in Palestina. Questa richiesta è stata offuscata nel 1948 dal puro bisogno di sopravvivenza in seguito allo sfollamento da parte di Israele della maggior parte della popolazione palestinese che viveva nel 78% del Paese conquistato dai coloni ebrei. L’entità della dislocazione, unita alla repressione politica che i rifugiati palestinesi ora affrontano nei molteplici Paesi arabi in cui vivevano in condizioni di indigenza, spiega perché la missione fondante dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1964 chiedeva il ritorno dei rifugiati (un diritto sancito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite nel 1949) e la liberazione della loro Patria dall’”occupazione e colonialismo” sionista (compreso l’esodo di tutti gli ebrei emigrati in Palestina dopo il 1917). Non si è concentrato sulla creazione di uno Stato sovrano indipendente come obiettivo definito.

Nel 1967, la clamorosa vittoria di Israele su Egitto, Giordania e Siria e la sua occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, il restante 22% della Palestina che Israele non riuscì a conquistare nel 1948, fece risorgere la richiesta di statualità e rianimò il movimento nazionale. Il Consiglio Nazionale Palestinese (PNC), che è l’organo legislativo dell’OLP, ha votato all’unanimità nel 1971 per sostenere una risoluzione che specificava che l’obiettivo della lotta di liberazione nazionale era l’istituzione di “uno Stato palestinese democratico” nella Palestina storica, dove “tutti (musulmani, cristiani ed ebrei) che lo desiderano potranno vivere in pace lì con gli stessi diritti e gli stessi doveri”. Ma la proposta del 1971 non era un semplice rimaneggiamento delle richieste pre-Nakba del movimento. È servito anche come rifiuto di tre soluzioni alternative. La prima, la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che è stata emessa come quadro diplomatico per risolvere il conflitto arabo-israeliano all’ombra della guerra del 1967, ha negato l’esistenza politica del popolo palestinese. La proposta del PNC di stabilire uno “Stato palestinese democratico” forniva anche un’alternativa più giusta al Piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947, che avrebbe ridotto la portata di uno Stato palestinese al 45% del Paese e lo avrebbe privato della maggior parte delle sue risorse economiche. Criticamente, la proposta del PNC denunciava esplicitamente la manciata di idee che erano state lanciate dalla guerra del 1967 per stabilire uno “staterello” molto più piccolo nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza…

Perchè i 15 anni di assedio di Israele a Gaza sono falliti – Ramzy Baroud

I governi di Sharon, Ehud Olmert, Benjamin Netanyahu e Naftali Bennett non sono riusciti a isolare Gaza dal più vasto corpo palestinese, a infrangere la volontà della Striscia o a garantire la sicurezza israeliana a spese dei palestinesi.

Sono passati quindici anni da quando Israele ha imposto un assedio totale alla Striscia di Gaza, sottoponendo quasi 2 milioni di palestinesi a uno dei blocchi politicamente motivati ​​più lunghi e crudeli della storia.

Il governo israeliano dell’epoca giustificò il suo assedio come l’unico modo per proteggere Israele dal “terrorismo e dagli attacchi missilistici” palestinesi. Questa rimane la linea ufficiale. Tuttavia, pochi israeliani, certamente non nel governo, nei media o persino nella gente comune, sosterrebbero che il Paese è più sicuro oggi di quanto non fosse prima del giugno 2007.

È opinione diffusa che Israele abbia imposto l’assedio come risposta alla presa di possesso della Striscia da parte di Hamas a seguito di un breve e violento confronto con il suo principale rivale politico palestinese Fatah, che ancora domina l’Autorità Palestinese in Cisgiordania.

Tuttavia, l’isolamento di Gaza era stato pianificato anni prima dello scontro Hamas-Fatah o addirittura della vittoria elettorale di Hamas nel gennaio 2006. Il defunto Primo Ministro israeliano Ariel Sharon era determinato da tempo a ridistribuire le forze israeliane fuori da Gaza. Ciò che alla fine è culminato nel disimpegno israeliano da Gaza nell’agosto-settembre 2005 è stato proposto da Sharon nel 2003, approvato dal suo governo nel 2004 e infine adottato dalla Knesset nel febbraio 2005.

Questo “disimpegno” era una tattica israeliana che mirava a spostare alcune migliaia di coloni ebrei illegali fuori da Gaza verso altri insediamenti illegali in Cisgiordania, ridistribuendo l’esercito israeliano dagli affollati centri abitati di Gaza alle aree di confine. Questo fu il vero inizio dell’assedio di Gaza.

L’affermazione di cui sopra è stata chiara anche a James Wolfensohn, che nel 2005 fu nominato inviato speciale per il disimpegno da Gaza dal Quartetto per il Medio Oriente (USA-UE-ONU-Russia). Nel 2010 concluse che: “Gaza era stata effettivamente isolata dal mondo esterno dopo il disimpegno israeliano e le conseguenze umanitarie ed economiche per la popolazione palestinese sono state profonde”.

Il fine ultimo del disimpegno non era la sicurezza di Israele e nemmeno il desiderio di far morire di fame gli abitanti di Gaza come forma di punizione collettiva. Quest’ultimo era solo un risultato naturale di un complotto politico molto più sinistro, come comunicato dal maggiore consigliere di Sharon all’epoca, Dov Weisglass. In un’intervista con Haaretz nell’ottobre 2004, affermò chiaramente: “Il significato del piano di disimpegno è il congelamento del processo di pace. E quando si blocca quel processo, si impedisce la creazione di uno Stato palestinese e si impedisce una discussione sui rifugiati, i confini e Gerusalemme”.

Non solo il ragionamento di Israele dietro il disimpegno e il successivo assedio di Gaza, ma, secondo l’esperto politico israeliano, tutto è stato fatto “con la benedizione presidenziale (americana) e la ratifica di entrambe le camere del Congresso”.  Il presidente in questione era George W. Bush.

Tutto questo è avvenuto prima delle elezioni legislative in Palestina, della vittoria di Hamas e dello scontro Hamas-Fatah. L’ultimo di questi serviva semplicemente come una comoda giustificazione per quanto già discusso, ratificato e attuato.

Per Israele, l’assedio è stato uno stratagemma politico che ha acquisito significato e valore aggiuntivi con il passare del tempo. In risposta all’accusa che Israele stesse facendo morire di fame i palestinesi a Gaza, Weisglass ha detto nel 2006: “L’idea è di mettere a dieta i palestinesi, ma non di farli morire di fame”.

Quella che è stata poi intesa come una dichiarazione scherzosa, anche se sconsiderata, si è rivelata una vera e propria politica israeliana, come indicato in un rapporto del 2008 che è stato reso disponibile nel 2012. Grazie all’organizzazione israeliana per i diritti umani Gisha, le “linee rosse per il consumo alimentare nella Striscia di Gaza”, composto dal Coordinatore israeliano delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), è stato reso pubblico. È emerso che Israele stava calcolando il numero minimo di calorie necessarie per mantenere in vita la popolazione di Gaza, un numero che è “adattato alla cultura e all’esperienza” nella Striscia.

Il resto è storia. La sofferenza di Gaza è assoluta. Circa il 98% dell’acqua della Striscia è imbevibile. Gli ospedali mancano di forniture essenziali e farmaci salvavita. Gli spostamenti in entrata e in uscita dalla Striscia sono praticamente vietati, salvo piccole eccezioni.

Tuttavia, Israele ha miseramente fallito nel raggiungere uno qualsiasi dei suoi obiettivi. Tel Aviv sperava che il disimpegno costringesse la comunità internazionale a ridefinire lo status giuridico della sua occupazione di Gaza. Nonostante le pressioni di Washington, tuttavia, ciò non è mai accaduto. Gaza rimane parte dei Territori Palestinesi Occupati come definiti nel diritto internazionale.

Anche la designazione israeliana di Gaza come “entità nemica” e “territorio ostile” del settembre 2007 è cambiata poco, tranne per il fatto che ha permesso al governo israeliano di dichiarare diverse guerre devastanti sulla Striscia, a partire dal 2008.

Nessuna di queste guerre ha servito con successo una strategia israeliana a lungo termine. Invece, Gaza sta combattendo su una scala molto più ampia che mai, frustrando i calcoli dei leader israeliani, come è diventato chiaro nel loro linguaggio confuso e inquietante. Durante una delle guerre israeliane più mortali a Gaza nel luglio 2014, il membro di destra della Knesset Ayelet Shaked ha scritto su Facebook che la guerra “non era una guerra contro il terrorismo o contro gli estremisti, e nemmeno una guerra contro l’Autorità Palestinese”. Invece, secondo Shaked, che un anno dopo divenne Ministro della Giustizia israeliano, “è una guerra tra due persone. Chi è il nemico? Il popolo palestinese”.

In ultima analisi, i governi di Sharon, Ehud Olmert, Benjamin Netanyahu e Naftali Bennett non sono riusciti a isolare Gaza dal più vasto corpo palestinese, a infrangere la volontà della Striscia o a garantire la sicurezza israeliana a spese dei palestinesi.

Inoltre, Israele è caduto vittima della propria arroganza. Mentre prolungare l’assedio non raggiungerà alcun valore strategico a breve o lungo termine, rimuoverlo, dal punto di vista di Israele, equivarrebbe ad ammettere la sconfitta e potrebbe autorizzare i palestinesi in Cisgiordania a emulare il modello di Gaza. Questa mancanza di certezza accentua ulteriormente la crisi politica e la mancanza di visione strategica che ha caratterizzato tutti i governi israeliani per quasi due decenni.

Inevitabilmente, l’esperimento politico di Israele a Gaza gli si è ritorto contro. L’unica via d’uscita è che l’assedio venga completamente revocato, per sempre.

Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La Nostra Visione per la Liberazione: Leader Palestinesi Coinvolti e Intellettuali Parlano”. Il Dr. Baroud è un ricercatore senior non residente presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), Università Zaim di Istanbul (IZU).

Traduzione di Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org

I palestinesi non sono “animali in uno zoo”: su Kanafani e la necessità di ridefinire il ruolo dell’”intellettuale vittimista” – Ramzy Baroud

Anni prima che gli Stati Uniti invadessero l’Iraq nel 2003, i media statunitensi si avvalsero di molti nuovi personaggi, promossi come “esperti”, che contribuirono a rafforzare la propaganda statunitense, consentendo alla fine al governo degli Stati Uniti di assicurarsi un sostegno popolare sufficiente per la guerra.

Sebbene negli anni successivi l’entusiasmo per la guerra diminuì , l’invasione dell’Iraq iniziò con un mandato popolare relativamente forte che permise al presidente degli Stati Uniti George W. Bush di rivendicare il ruolo di liberatore dell’Iraq, di combattente del “terrorismo” e di campione degli Stati Uniti a livello globale. Secondo un sondaggio CNN/USA Today/Gallup condotto il 24 marzo 2003 – pochi giorni dopo l’invasione – il settantadue per cento degli americani era favorevole alla guerra.

Solo ora stiamo iniziando a comprendere appieno l’imponente edificio di bugie, inganni e falsità coinvolti nel plasmare la narrativa della guerra, e il ruolo sinistro svolto dai media mainstream nel demonizzare l’Iraq e disumanizzare il suo popolo. Gli storici futuri continueranno il compito di svelare la cospirazione bellica per anni a venire.

Di conseguenza, è anche importante riconoscere il ruolo svolto dagli stessi “informatori nativi” dell’Iraq, come li descriverebbe il defunto professor Edward Said. L ‘”informatore nativo è un servitore volenteroso dell’imperialismo”, secondo l’influente intellettuale palestinese.

Grazie alle varie invasioni americane e agli interventi militari, questi “informatori” sono cresciuti di numero e di utilità al punto che, in vari circoli intellettuali e mediatici occidentali, definiscono ciò che è erroneamente considerato “realtà” riguardante la maggior parte dei paesi arabi e musulmani. Dall’Afghanistan, all’Iran, alla Siria, alla Palestina, alla Libia e, naturalmente, all’Iraq, tra gli altri, questi “esperti” riproducono costantemente messaggi su misura per adattarsi alle agende USA-occidentali.

Questi “esperti” sono spesso descritti come dissidenti politici. Sono reclutati (tramite think tank finanziati dal governo o altro) dai governi occidentali per fornire una rappresentazione conveniente delle “realtà” in Medio Oriente – e altrove – come giustificazione razionale, politica o morale per la guerra e varie altre forme di intervento.

Sebbene questo fenomeno sia ampiamente compreso – soprattutto perché le sue pericolose conseguenze sono diventate chiaramente evidenti nei casi di Iraq e Afghanistan – c’è un altro fenomeno che raramente riceve la necessaria attenzione. Nel secondo scenario, l’”intellettuale” non è necessariamente un “informatore”, ma una vittima, il cui messaggio è interamente plasmato dal suo senso di autocommiserazione e di vittimismo. Nel processo di comunicazione di quel vittimismo collettivo, questo intellettuale fa uno sfavore al suo popolo presentandolo come sfortunato e senza alcun elemento umano di sorta.

La Palestina è un esempio calzante.

L’”intellettuale vittimista” della Palestina non è un intellettuale secondo alcuna definizione classica. Said si riferisce all’intellettuale come a “un individuo dotato della facoltà di rappresentare, incarnare, articolare un messaggio, un punto di vista, un atteggiamento, una filosofia o un’opinione”. Gramsci affermava che gli intellettuali sono “coloro che sostengono, modificano e alterano i modi di pensare e di comportamento delle masse”. Li chiamava “fornitori di coscienza”. L’intellettuale vittimista” non è niente di tutto questo.

Nel caso della Palestina, questo fenomeno non è stato casuale. A causa degli spazi limitati a disposizione dei pensatori palestinesi per parlare apertamente e francamente dei crimini israeliani e della resistenza palestinese all’occupazione militare e all’apartheid, alcuni hanno strategicamente scelto di utilizzare qualsiasi margine disponibile per comunicare qualsiasi tipo di messaggio che avrebbe potuto essere nominalmente accettato dai media occidentali e dal pubblico.

In altre parole, affinché gli intellettuali palestinesi possano operare all’interno dei margini della società occidentale tradizionale, o anche all’interno dello spazio assegnato da alcuni gruppi filo-palestinesi, possono solo ‘narrare’ come ‘fornitori di vittimismo”. Niente di più.

Coloro che hanno familiarità con il discorso intellettuale palestinese in generale, specialmente dopo la prima grande guerra israeliana a Gaza nel 2008-9, devono aver notato come le narrazioni palestinesi riguardo alla guerra raramente si discostino dal discorso decontestualizzato e depoliticizzato delle vittime palestinesi. Sebbene la comprensione della depravazione di Israele e dell’orrenda violenza dei suoi crimini di guerra sia fondamentale, alle voci palestinesi a cui viene dato un palcoscenico per affrontare questi crimini viene spesso negata la possibilità di presentare le loro narrazioni sotto forma di forti analisi politiche o geopolitiche, per non parlare della denuncia dell’ ideologia sionista di Israele  o l’orgogliosa difesa della resistenza palestinese.

Molto è stato scritto sull’ipocrisia dell’Occidente nel gestire le conseguenze della guerra Russia-Ucraina, specialmente se confrontata con la decennale occupazione israeliana della Palestina o le guerre genocide israeliane a Gaza. Ma poco è stato detto sulla natura dei messaggi ucraini rispetto a quelli dei palestinesi: i primi esigenti e legittimati, mentre i secondi per lo più passivi e timidi.

Mentre i massimi funzionari ucraini spesso twittano affermazioni del tipo “i funzionari occidentali possono “andare a farsi fottere”, i funzionari palestinesi implorano e supplicano costantemente. L’ironia è che i funzionari ucraini stanno attaccando le stesse nazioni che hanno fornito loro miliardi di dollari di “armi letali”, mentre i funzionari palestinesi stanno attenti a non offendere le stesse nazioni che sostengono Israele con le stesse armi usate per uccidere i civili palestinesi.

Si potrebbe obiettare che i palestinesi modulano il loro linguaggio per adattarsi a qualsiasi spazio politico e mediatico a loro disposizione. Questo, tuttavia, non spiega perché molti palestinesi, anche all’interno di ambienti politici e accademici “amichevoli”, vedono il loro popolo solo come vittima e nient’altro.

Non è certo un fenomeno nuovo. Risale ai primi anni della guerra israeliana contro il popolo palestinese. L’intellettuale palestinese di sinistra, Ghassan Kanafani, come altri, era consapevole di questa dicotomia.

Kanafani ha contribuito alla consapevolezza intellettuale in varie società rivoluzionarie nel Sud del mondo durante un’era critica per le lotte di liberazione nazionale. È stato il destinatario postumo del Premio Lotus per la letteratura della Conferenza degli scrittori afroasiatici nel 1975, tre anni dopo essere stato assassinato da Israele a Beirut, nel luglio 1972.

Come altri della sua generazione, Kanafani è stato irremovibile nel presentare la vittimizzazione palestinese come parte integrante di una complessa realtà politica dell’occupazione militare israeliana, del colonialismo occidentale e dell’imperialismo guidato dagli Stati Uniti. Viene spesso raccontata una storia famosa su come avesse incontrato sua moglie, Anni, nel sud del Libano. Quando Anni, una giornalista danese, arrivò in Libano nel 1961, chiese a Kanafani se poteva visitare i campi profughi palestinesi. “La mia gente non è un animale in uno zoo”, rispose Kanafani, aggiungendo: “Devi avere un buon background su di loro prima di andarli a visitare”. La stessa logica può essere applicata a Gaza, a Sheikh Jarrah e Jenin.

La lotta palestinese non può essere ridotta a una conversazione sulla povertà o sugli orrori della guerra, ma deve essere ampliata per includere contesti politici più ampi che hanno portato alle tragedie attuali. Il ruolo dell’intellettuale palestinese non può fermarsi a trasmettere la vittimizzazione del popolo palestinese, lasciando ad altri il ruolo molto più consequenziale – e intellettualmente impegnativo – di analizzare i fatti storici, politici e geopolitici, alcuni dei quali spesso parlano a nome dei palestinesi.

È piuttosto edificante e gratificante vedere finalmente più voci palestinesi incluse nella discussione sulla Palestina. In alcuni casi, i palestinesi sono addirittura al centro di queste conversazioni. Tuttavia, affinché la narrativa palestinese sia veramente rilevante, i palestinesi devono assumere il ruolo dell’intellettuale gramsciano come “fornitori di coscienza” e abbandonare del tutto il ruolo dell’”intellettuale vittimista”. In effetti, il popolo palestinese non è un “animale in uno zoo” ma una nazione con un’agenda politica, capace di articolare, resistere e, in definitiva, conquistare la propria libertà, come parte di una lotta molto più grande per la giustizia e la liberazione in tutto il mondo.

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

Salah Hamouri preso di mira – Soulayma Mardam Bey

È un avvocato e attivista franco-palestinese. La lotta contro l’occupazione israeliana gli è costata anni di carcere e la separazione dalla famiglia. Ora è di nuovo in cella e chiede inutilmente l’aiuto di Parigi.

Carcere militare di Ofer, carcere militare nel deserto del Negev, centro interrogatori e detenzione di Al Moscobiyeh. Da più di vent’anni la vita di Salah Hamouri è scandita dall’arbitrarietà del sistema giudiziario israeliano: assurdo, oscuro, crudele. Una lunga persecuzione il cui ultimo episodio risale al 10 marzo, quando il comando militare israeliano ha emesso un ordine di detenzione amministrativa di quattro mesi (un provvedimento che prevede il carcere senza processo) contro questo avvocato francopalestinese, una delle figure di spicco della lotta per la libertà del popolo palestinese.

Per i suoi sostenitori Hamouri è un’icona politica, per Israele, che lo considera un terrorista, è una minaccia alla sicurezza nazionale. Tutto o quasi nel percorso di quest’uomo, nato nel 1985 a Gerusalemme da madre francese e padre palestinese, ha una potente carica simbolica. La sua storia parla al tempo stesso della centralità della detenzione nell’esperienza palestinese, della battaglia per continuare a esistere nella città santa, del controllo che l’occupazione esercita sulle persone e anche, da un certo punto di vista, dell’evoluzione delle relazioni tra Francia e Israele.

Il carcere è onnipresente nella vita di Hamouri. Lo accompagna, come un’ombra, fin dalla tenera età. “Tutto è cominciato quando Salah aveva tre o quattro anni”, ricorda sua madre, Denise Hamouri, che vive a Gerusalemme. “Suo zio era molto impegnato e durante la prima intifada era regolarmente arrestato. Salah è andato a trovarlo alcune volte in carcere. Questo lo ha segnato”.

Hamouri è già stato arrestato sei volte. La prima aveva solo sedici anni, diciannove quando tutto è cambiato. Era il 13 marzo 2005: fu interrogato e poi portato via dalle forze di occupazione mentre si trovava sulla strada per Ramallah. Era sospettato di aver cospirato con l’obiettivo di assassinare il rabbino Ovadia Yosef, a capo dello Shas, un partito religioso israeliano di estrema destra; e di appartenere a un’organizzazione vicina al Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), un gruppo di orientamento marxista dotato di un braccio armato e di uno politico, classificato come terrorista da Israele e dall’Unione europea. Ha passato tre anni in detenzione amministrativa.

Nel 2008 è arrivata la sentenza. Hamouri è stato condannato a sette anni di carcere per “cospirazione e appartenenza all’Fplp”. Non è mai stata fornita alcuna prova. Ovviamente, Hamouri si era dichiarato colpevole. Ma nel contesto israeliano questo non vuol dire niente. “Il modo in cui è strutturata la giustizia militare fa sì che il 99 per cento degli imputati palestinesi sia dichiarato colpevole attraverso tutta una serie di strumenti, e soprattutto con le pressioni per spingerli a un’ammissione di colpevolezza”, spiega Stéphanie Latte Abdallah, ricercatrice del Centre de recherches internationales (Ceri), il principale centro di ricerca francese dedicato allo studio delle relazioni internazionali. “I processi sono lunghi e i capi d’imputazione si moltiplicano: l’avvocato incoraggia il cliente a patteggiare per evitare accuse ancora più pesanti”, aggiunge Latte Abdallah.

Nell’agosto 2017 la storia si è ripetuta da capo. Salah Hamouri è stato arrestato di nuovo e messo in detenzione amministrativa per tredici mesi, prima di essere rilasciato nel settembre 2018. Perché? Perché così ha deciso Israele. “Oggi il sistema giuridico israeliano permette d’incarcerare tutti i palestinesi a partire dai dodici anni”, spiega Latte Abdallah.

Le autorità israeliane giustificano l’incarcerazione senza processo né accuse formali sostenendo di farlo per prevenire un illecito. Ma le prove su cui si fonda l’arresto non sono rese note né al detenuto né ai suoi parenti e neanche ai suoi avvocati. Questi provvedimenti, della durata massima di sei mesi, sono rinnovabili a tempo indefinito e lasciano nell’incertezza fino all’ultimo minuto. Così la famiglia di Salah Hamouri è venuta a sapere il 5 giugno che la sua detenzione, che avrebbe dovuto concludersi il giorno successivo, era stata prolungata fino al 5 settembre. “La cosa più angosciante è non ricevere notizie”, aveva detto qualche giorno prima Denise Hamouri. Una volta al mese la Croce rossa organizza delle visite per i parenti stretti. L’ultima volta che Hamouri ha visto suo figlio, ovviamente dietro una lastra di vetro, risale al 9 maggio. Tra un incontro e l’altro le telefonate sono vietate. In queste circostanze le notizie arrivano più spesso attraverso gli avvocati. “Quando riesco a vederlo fa di tutto per dirmi che sta bene, ma ho paura che sia molto stressato e spaventato. Sono molto preoccupata, e quando penso a quello che sta passando lui, lo sono ancora di più”, dice la madre di Hamouri.

Il caso di Salah Hamouri è un buon esempio della strategia messa a punto dallo stato ebraico a Gerusalemme

Dal 1967 quasi il 40 per cento degli uomini palestinesi è stato incarcerato almeno una volta. Addameer, l’organizzazione per la quale lavora Salah Hamouri, che si occupa di difendere i diritti dei detenuti, stima che oggi ci sono 4.650 prigionieri politici palestinesi, tra cui seicento in detenzione amministrativa, 170 bambini e 32 donne. Un universo che nasconde la violenza dell’occupazione nella sua dimensione più subdola.

La stessa Addameer fa parte delle sei organizzazioni che dall’ottobre 2021 sono classificate come terroriste dallo stato ebraico, con il pretesto che sarebbero legate al Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Un accanimento che va avanti da anni. “Siamo stati regolarmente colpiti da campagne di diffamazione. E gli uffici di Addameer sono stati presi d’assalto due volte, nel 2014 e nel 2019. I nostri avvocati e i nostri dipendenti sono stati arrestati e messi in detenzione amministrativa”, ricorda Milena Ansari, una dei responsabili dell’organizzazione. Stavolta però la pressione sta prendendo una piega più intensa. “Viviamo sotto la minaccia di una chiusura forzata che potrebbe avvenire da un momento all’altro. Non c’è alcuna stabilità nelle nostre vite”, afferma Ansari.

La prova di questa sorveglianza diffusa è stata la scoperta, nel 2021, del soft­ware spia israeliano Pegasus sui telefoni personali e di lavoro di Salah Hamouri. Secondo le associazioni Front line defenders, Amnesty international e Citizen lab, questo hackeraggio è cominciato nell’aprile 2021 quando l’avvocato si trovava in Palestina ed è poi proseguito in Francia tra il 27 aprile e il 13 maggio dello stesso anno.

In questo labirinto in cui s’intrecciano violenze politiche e simboliche, la paranoia dello stato ebraico nei confronti di Salah Hamouri a stento maschera il suo obiettivo: la battaglia per mantenere l’egemonia a Gerusalemme. Un progetto che conduce sui fronti politico, giuridico e demografico, e in cui l’attivista – che è conosciuto all’estero – dev’essere tagliato fuori. Tutto dunque dev’essere fatto per rendergli la vita impossibile. Così la sua storia è anche quella di una coppia e di una famiglia separate dall’occupazione.

Nel 2011 – in seguito alla liberazione anticipata dopo un arresto, grazie a uno scambio di prigionieri – Hamouri è andato in Francia, il paese della madre, per incontrare i suoi molti sostenitori. Lì ha conosciuto Elsa Lefort, la sua futura moglie. Proveniente da una famiglia comunista impegnata nel movimento di solidarietà ai palestinesi, Lefort si era impegnata in prima persona per difendere l’avvocato. È stato l’inizio di una storia d’amore che, molto rapidamente, si è scontrata con le strategie dello stato ebraico…

GALLERIA FOTOGRAFICA: villaggi palestinesi prima della Nakba

Centinaia di villaggi, alcuni abitati fin dall’antichità, sono stati spopolati dei loro abitanti palestinesi per far posto allo stato di Israele.

“L’Autorità Palestinese tortura regolarmente i detenuti” afferma Human Rights Watch

Human Rights Watch chiede ai donatori di tagliare i finanziamenti alle forze di sicurezza e sollecita un’indagine della corte internazionale

Le autorità palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza torturano sistematicamente i critici e gli oppositori in detenzione, una pratica che potrebbe equivalere a crimini contro l’umanità, ha affermato  HRW.

Nel suo rapporto, Human Rights Watch ha chiesto ai paesi donatori di tagliare i finanziamenti alle forze di sicurezza palestinesi che commettono tali crimini e ha esortato la corte penale internazionale ad indagare.

Il rapporto afferma che le forze di sicurezza palestinesi “usano l’isolamento e le percosse, tra cui frustare i piedi, e costringono i detenuti in posizioni di stress dolorose per periodi prolungati, incluso sollevare le braccia dietro la schiena con cavi o corde, per punire e intimidire i critici e gli oppositori e indurre confessioni”.

Il rapporto di HRW arriva un anno dopo la morte di Nizar Banat, aperto critico dell’Autorità Palestinese (AP), la cui famiglia dice essere morto dopo che le forze di sicurezza  presero d’assalto la sua residenza nel cuore della notte e lo picchiarono con manganelli di metallo. La sua morte scatenò  settimane di proteste contro l’AP, che governa parti della Cisgiordania occupata da Israele. Le forze di sicurezza palestinesi  dispersero violentemente alcune di quelle proteste.

Amnesty International ha dichiarato la scorsa settimana che l’Autorità  non ha ritenuto le sue forze di sicurezza responsabili della morte di Banat. La scorsa estate l’AP ha arrestato 14 ufficiali, che sta processando in un tribunale parte dell’Autorità Palestinese e di Hamas costituiscono una parte fondamentale della repressione del popolo palestinese”.

“Più di un anno dopo aver picchiato a morte Nizar Banat, l’Autorità Palestinese continua ad arrestare e torturare critici e oppositori”, ha affermato Omar Shakir, direttore di HRW di Israele e Palestina. “Gli abusi sistematici da parte dell’Autorità Palestinese e di Hamas costituiscono una parte fondamentale della repressione del popolo palestinese”.

Il gruppo ha elencato i palestinesi che, secondo quanto riferito, furonoca potrebbe eq arrestati arbitrariamente all’indomani della morte di Banat. HRW ha affermato ce presunte torture e che, data la loro natura sistematica, la pratiuivalere a crimini contro l’umanità.he le forze di sicurezza non sono state ritenute responsabili dell

La Palestina  ha sottoscritto la Convenzione contro la tortura, che richiede ai membri di lavorare per prevenire la tortura.

Il rapporto descrive anche il maltrattamento e la tortura israeliani dei detenuti palestinesi in Cisgiordania, affermando che nessuna accusa è stata emessa contro le forze di sicurezza israeliane nonostante le  centinaia di denunce presentate negli ultimi 20 anni.

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org – da qui

Paradossali semi dell’Olocausto: l’oppressione e la morte continuano a vivere nello stato di apartheid di Israele – Miko Peled

Sta diventando sempre più difficile per Israele e le agenzie che promuovono il sionismo nel mondo ritrarre il sionismo con colori rosei. Questo principalmente perché c’è una storia di quasi 100 anni di sionismo; e le azioni dello Stato sionista, Israele, hanno una storia di sette decenni e mezzo di violenza e razzismo. Da aggiungere che, a febbraio, Amnesty International ha pubblicato un rapporto schiacciante che dimostra chiaramente che Israele è coinvolto nel crimine di Apartheid e che lo è stato sin dal giorno della sua istituzione.

Il rapporto di Amnesty è lungo meno di 300 pagine e può, anzi deve, essere letto da tutti. È dettagliato, ben scritto e può fornire gli strumenti e le informazioni necessarie quando ci si confronta con Israele e i suoi alleati nei vari ambiti in cui operano: nel mondo accademico quando si confrontano i rappresentanti delle istituzioni accademiche israeliane; nel mondo degli sport internazionali, quando chiedono alla FIFA e al Comitato Olimpico Internazionale di espellere Israele; e nel mondo delle imprese e nelle sfere politico-diplomatiche. In breve, il rapporto di Amnesty è uno strumento prezioso.

L’articolo 1 della Convenzione Internazionale sulla Repressione e la Punizione del Crimine di Apartheid afferma:

Gli Stati parti della presente Convenzione dichiarano che l’Apartheid è un crimine contro l’Umanità e che gli atti disumani risultanti dalle politiche e dalle pratiche dell’Apartheid e da politiche e pratiche simili di segregazione e discriminazione razziale, come definito nell’articolo 2 della Convenzione, sono crimini che violano i principi del diritto internazionale.

Secondo l’articolo 2 paragrafo A della Convenzione, il crimine di Apartheid comprende i seguenti elementi:

Negazione a un membro o a membri di un gruppo o più gruppi razziali del diritto alla vita e alla libertà della persona:

(1) Per omicidio di membri di uno o più gruppi razziali;

(2) Infliggendo ai membri di uno o più gruppi razziali gravi danni fisici o mentali, violando la loro libertà o dignità, o sottoponendoli a tortura o trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti;

(3) Mediante arresto arbitrario e detenzione illegale dei membri di uno o più gruppi razziali;

(4) Imposizione deliberata a uno o più gruppi razziali di condizioni di vita calcolate per infliggere danni fisici totali o parziali.

Il significato di questa clausola non può essere sopravvalutato, in particolare quando si parla dello Stato di Israele, Stato istituito solo tre anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’Olocausto. Secondo il rapporto di Amnesty, il crimine di Apartheid è iniziato nel 1948 quando fu istituito lo Stato di Israele.

Un articolo intitolato “Abbiamo bisogno di discutere di Lyd”, pubblicato sulla piattaforma mediatica alternativa israeliana, Haokets, racconta gli eventi del luglio 1948 quando la città palestinese di El-Lyd fu presa dall’esercito israeliano in quella che era nota come “Operazione Danny”.

El-Lyd fu oggetto di un attacco aereo nella notte tra il 10 e l’11 luglio 1948. Quindi un battaglione guidato da Moshe Dayan, il famoso generale israeliano con la benda sull’occhio, attraversò la città al ritmo del suono delle mitragliatrici. Testimoni che hanno preso parte a questo attacco hanno detto che Dayan ha ordinato loro di “ripulire la città a colpi d’arma da fuoco”, un comando che hanno interpretato nel senso di fare piazza pulita. La città è stata presa in 47 minuti durante i quali, secondo l’articolo, l’esercito israeliano ha utilizzato nove veicoli corazzati per il trasporto truppe, 20 jeep e 10 veicoli corazzati dotati di mitragliatrici. I palestinesi non avevano forze a parte pochi uomini con i fucili.

Vari testimoni hanno parlato di centinaia di corpi e bossoli disseminati per le strade. I morti furono infine sepolti in fosse comuni non contrassegnate. Il 12 luglio sono stati segnalati scontri tra alcuni combattenti locali e le forze d’invasione israeliane. In questi scontri furono uccisi altri 250 palestinesi, alcuni dei quali erano prigionieri detenuti dagli israeliani. Più tardi quel giorno, un soldato di nome Yerahmiel Kahanovich lanciò un missile nella moschea Dahmash dove si erano rifugiati oltre 100 palestinesi. Un missile Fiat anticarro uccise circa 120 civili che non rappresentavano alcun pericolo per nessuno.

Il numero esatto delle persone uccise è sconosciuto. Questo perché l’impatto dell’esplosione è stato così devastante che nessun corpo è rimasto intatto. “I brandelli dei corpi erano su tutte le pareti e sul soffitto”, ha detto un soldato israeliano. Quindi la moschea fu tenuta chiusa per due settimane. Dopo due settimane, i prigionieri palestinesi furono mandati a ripulire la moschea e seppellire i resti di coloro che erano all’interno. Poi, secondo la testimonianza degli stessi israeliani, molti di coloro che hanno eseguito la sepoltura sono stati fucilati, uccisi e poi anch’essi sepolti.

Non solo nessuno è mai stato processato, non solo Moshe Dayan ha continuato a comandare l’esercito israeliano ed è poi diventato Ministro della Difesa e degli Affari Esteri, ma, con una mossa forse più cinica di ogni altra, la piazza fuori dalla moschea è stata intitolata “Piazza Palmach”, essendo il Palmach la brigata che aveva commesso il massacro in città e in particolare presso la moschea.

Una volta che la città fu occupata, i soldati costrinsero i residenti palestinesi in marcia verso Est, verso il nuovo Regno di Giordania, nella calura estiva senza cibo né acqua. “Yalla to Abdullah”: Andate da Abdullah, hanno gridato i soldati israeliani mentre uomini, donne, bambini e anziani sono stati costretti a una marcia della morte che avrebbe portato alla morte di innumerevoli palestinesi.

Cosa fa di un uomo un leader?

In un articolo della pubblicazione dell’esercito israeliano Maarachot, il comando di Moshe Dayan del battaglione che ha preso El-Lyd è descritto come “coraggioso” e dotato di “capacità di resistere alle pressioni della battaglia”. Dayan è descritto come dotato di una “determinazione a completare la missione”, “professionalità” e “risolutezza”.

Nell’articolo, il massacro di El-Lyd è descritto come “una battaglia ardua”, in cui le capacità di comando del comandante del battaglione Dayan hanno salvato la situazione e portato alla vittoria. L’articolo è stato scritto dal Generale di Brigata Shay Kelper mentre era ancora un Tenente Colonnello e lui stesso comandante di battaglione. Il suo articolo ha ricevuto un premio dal Capo di Stato Maggiore dell’IDF.

La lotta per porre fine al regime di Apartheid in Palestina si svolge in ogni arena, in ogni campo e in ogni continente. Israele e i suoi alleati sono determinati a mantenere la loro posizione perché sanno che per loro questa è una lotta per la loro sopravvivenza. Le persone che hanno a cuore la giustizia e la vita dei palestinesi devono ricordare che ogni giorno che passa, mentre a Israele è permesso di continuare con i suoi crimini contro l’umanità, è un altro giorno di morte per i palestinesi.

Miko Peled è uno scrittore e attivista per i diritti umani, nato a Gerusalemme. È autore di “The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine” (Il figlio del generale. Viaggio di un Israeliano in Palestina) e “Injustice, the Story of the Holy Land Foundation Five” (Ingiustizia, Storia dei Cinque Della Fondazione Terra Santa).

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

Nakba: come sono state nascoste le prove dell’espulsione degli arabi nel 1948 – Hagar Shefaz

Quattro anni fa, la storica Tamar Novick fu sconvolta da un documento che trovò nel fascicolo di Yosef Waschitz, del dipartimento arabo del partito di sinistra Mapam, nell’archivio Yad Yaari di Givat Haviva. Il documento, che sembrava descrivere gli eventi accaduti durante la guerra del 1948, citava:

“Safsaf [ex villaggio palestinese vicino Safed] – 52 uomini sono stati catturati, legati l’uno all’altro, hanno scavato una fossa e hanno sparato loro. 10 stavano ancora tremando. Le donne arrivarono, implorando pietà. Sono stati trovati i corpi di 6 uomini anziani. C’erano 61 corpi. 3 casi di stupro, uno ad est di Safed, una ragazza di 14 anni, 4 uomini uccisi. Ad uno hanno tagliato le dita con un coltello per prendergli l’anello”. Lo scrittore prosegue descrivendo ulteriori massacri, saccheggi e abusi perpetrati dalle forze israeliane nella Guerra d’indipendenza israeliana. “Non c’è un nome sul documento e non è chiaro chi ci sia dietro”, dice il dottor Novick ad Haaretz. “Si interrompe anche nel mezzo. L’ho trovato molto inquietante. Sapevo che trovare un documento come questo mi rendeva responsabile di capire davvero cosa era successo”.

Il villaggio di Safsaf dell’Alta Galilea fu occupato dalle forze di difesa israeliane durante l’operazione Hiram verso la fine del 1948. Moshav Safsufa fu eretta sulle sue rovine. Nel corso degli anni la settima brigata è stata accusata di aver commesso crimini di guerra nel villaggio. Queste accuse sono supportate dal documento trovato da Novick, che in precedenza non era noto agli studiosi. Potrebbe anche costituire un’ulteriore prova che i vertici israeliani sapessero cosa stava succedendo già al tempo.

Novick decise di consultare altri storici in merito al documento. Benny Morris, i cui libri sono testi fondamentali nello studio della Nakba – la “catastrofe”, come i palestinesi si riferiscono all’emigrazione di massa di arabi dal paese durante la guerra del 1948 – le disse che anche lui si era imbattuto in documenti simili in passato. Si riferiva alle note fatte dal membro del Comitato Centrale del Mapam, Aharon Cohen, sulla base di un briefing dato nel novembre 1948 da Israel Galili, l’ex capo di stato maggiore della milizia dell’Haganah, che divenne l’IDF. Le note di Cohen in questo caso, che Morris ha pubblicato, riportavano: “Safsaf 52 uomini legati con una corda. Gettato in una fossa e ucciso con arma da fuoco. 10 sono stati uccisi. Le donne imploravano pietà. [Ci sono stati] 3 casi di stupro. Catturato e rilasciato. Una ragazza di 14 anni è stata violentata. Altri 4 sono stati uccisi. Anelli tolti coi coltelli”.

La nota a piè di pagina di Morris (nel suo seminale “The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-1949”) afferma che questo documento è stato trovato anche nell’Archivio Yad Yaari. Ma quando Novick tornò per esaminare il documento, fu sorpresa di scoprire che non c’era più.

“All’inizio ho pensato che forse Morris non era stato preciso nella sua nota a piè di pagina, che forse aveva commesso un errore”, ricorda Novick. “Mi ci è voluto del tempo per considerare la possibilità che il documento fosse semplicemente scomparso”. Quando ha chiesto ai responsabili dove fosse il documento, le è stato detto che era custodito sotto chiave a Yad Yaari – per ordine del Ministero della Difesa.

Dall’inizio dell’ultimo decennio, le squadre del Ministero della Difesa hanno setacciato gli archivi di Israele e rimosso documenti storici. Ma non sono solo i documenti relativi al progetto nucleare di Israele o alle relazioni estere del paese che vengono trasferiti nei caveau: le centinaia di documenti che sono stati nascosti sono parte di uno sforzo sistematico che vuole nascondere le prove della Nakba.

Il fenomeno è stato rilevato per la prima volta dall’Akevot Institute for Israeli-Palestinian Conflict Research. Secondo un rapporto redatto dall’istituto, l’operazione è guidata dal Malmab, il dipartimento di sicurezza segreto del ministero della Difesa (il nome è un acronimo ebraico che sta per “direttore della sicurezza dell’establishment della difesa”), le cui attività e budget sono classificati. Il rapporto afferma che il Malmab ha rimosso la documentazione storica illegalmente e senza alcuna autorità, e almeno in alcuni casi ha sigillato documenti che erano stati precedentemente autorizzati per la pubblicazione dalla censura militare. Alcuni dei documenti che erano stati posti nei sotterranei erano già stati pubblicati.

Un rapporto investigativo di Haaretz ha scoperto che il Malmab ha nascosto la testimonianza dei generali dell’IDF sull’uccisione di civili e la demolizione dei villaggi, così come la documentazione dell’espulsione dei beduini durante il primo decennio di statualità. Le conversazioni condotte da Haaretz con i direttori di archivi pubblici e privati hanno rivelato che il personale del dipartimento di sicurezza aveva trattato gli archivi come come loro proprietà, in alcuni casi minacciando gli stessi direttori.

Yehiel Horev, che ha guidato il Malmab per due decenni, fino al 2007, ha ammesso ad Haaretz di aver lanciato il progetto, che è ancora in corso. Sostiene che ha senso nascondere gli eventi del 1948, perché scoprirli potrebbe generare disordini tra la popolazione araba del paese. Alla domanda su quale sia lo scopo di rimuovere documenti già pubblicati, ha spiegato che l’obiettivo è minare la credibilità degli studi sulla storia del problema dei rifugiati. Secondo Horev, un’accusa fatta da un ricercatore che è supportata da un documento originale non è la stessa cosa di un’accusa che non può essere dimostrata o confutata…

Secondo un documento del ’48, il 70% degli arabi se ne andò a causa di operazioni militari ebraiche.

Il documento che Novick stava cercando potrebbe aver rafforzato il lavoro di Morris. Durante le indagini, Haaretz riuscì infatti a trovare il promemoria di Aharon Cohen, che riassume una riunione del Comitato politico del Mapam sul tema dei massacri e delle espulsioni nel 1948. I partecipanti all’incontro chiedevano la collaborazione con una commissione d’inchiesta che avrebbe indagato gli eventi. Un caso discusso dalla commissione riguardava “gravi azioni” compiute nel villaggio di Al-Dawayima, ad est di Kiryat Gat. Un partecipante ha menzionato a questo proposito la milizia clandestina Lehi, allora sciolta. Sono stati anche segnalati atti di saccheggio: “Lod e Ramle, Be’er Sheva, non c’è un negozio [arabo] che non sia stato violato. 9a brigata dice 7, 7a brigata dice 8″. “Il partito”, afferma il documento verso la fine, “è contro l’espulsione se non vi è alcuna necessità militare per essa. Esistono diversi approcci per quanto riguarda la valutazione della necessità. E sono necessari ulteriori chiarimenti. Quello che è successo in Galilea – quelli sono atti nazisti! Ognuno dei nostri membri deve riferire ciò che sa”.

Uno dei documenti più affascinanti sull’origine del problema dei profughi palestinesi è stato scritto da un ufficiale a Shai, il precursore del servizio di sicurezza Shin Bet. Parla del perché il paese è stato svuotato di così tanti dei suoi abitanti arabi, soffermandosi sulle circostanze di ogni villaggio. Compilato alla fine di giugno 1948, era intitolato “L’emigrazione degli arabi di Palestina”.

Questo documento è stato la base per un articolo che Benny Morris ha pubblicato nel 1986. Dopo la pubblicazione dell’articolo, il documento è stato rimosso dall’archivio e reso inaccessibile ai ricercatori. Anni dopo, il team del Malmab ha riesaminato il documento e ha ordinato che rimanesse classificato. Non potevano sapere che pochi anni dopo i ricercatori di Akevot avrebbero trovato una copia del testo e lo avrebbero passato davanti alla censura militare, che ne ha autorizzato la pubblicazione incondizionatamente. Ora, dopo anni di occultamento, il succo del documento viene rivelato qui.

Il documento di 25 pagine inizia con un’introduzione che approva sfacciatamente l’evacuazione dei villaggi arabi. Secondo l’autore, il mese di aprile “ha primeggiato in un aumento dell’emigrazione”, mentre maggio “è stato benedetto con l’evacuazione dei posti massimi”. Il rapporto poi affronta “le cause dell’emigrazione araba”. Secondo la narrativa israeliana diffusa negli anni, la responsabilità dell’esodo da Israele spetta ai politici arabi che hanno incoraggiato la popolazione a andarsene. Tuttavia, secondo il documento, il 70% degli arabi se ne andò a causa di operazioni militari ebraiche.

L’autore anonimo del testo classifica le ragioni della partenza degli arabi in ordine di importanza. La prima ragione: “Atti diretti di ostilità ebraica contro i luoghi di insediamento arabi”. La seconda ragione è stata l’impatto di quelle azioni sui villaggi vicini. Terza importanza per importanza furono le “operazioni dei fuggitivi”, vale a dire i sotterranei di Irgun e Lehi. La quarta ragione dell’esodo arabo furono gli ordini emessi dalle istituzioni e dalle “bande” arabe (poiché il documento si riferisce a tutti i gruppi combattenti arabi); il quinto era “le” operazioni sussurranti “ebraiche per indurre gli abitanti arabi alla fuga”; e il sesto fattore era “ultimatum di evacuazione”.L’autore afferma che “senza dubbio, le operazioni ostili sono state la causa principale del movimento della popolazione”. Inoltre, “Gli altoparlanti in lingua araba hanno dimostrato la loro efficacia nelle occasioni in cui sono stati utilizzati correttamente”. Per quanto riguarda le operazioni Irgun e Lehi, il rapporto osserva che “molti nei villaggi della Galilea centrale hanno iniziato a fuggire in seguito al rapimento dei notabili di Sheikh Muwannis [un villaggio a nord di Tel Aviv]. L’arabo ha imparato che non è sufficiente stringere un accordo con l’Haganah e che ci sono altri ebrei [cioè le milizie separatiste] da cui guardarsi”.

L’autore osserva che gli ultimatum per partire furono impiegati specialmente nella Galilea centrale, meno nella regione del Monte Gilboa. “Naturalmente, l’atto di questo ultimatum, come l’effetto del ‘consiglio amichevole’, è arrivato dopo una certa preparazione del terreno per mezzo di azioni ostili nell’area”.

Un’appendice al documento descrive le cause specifiche dell’esodo da ciascuna delle decine di località arabe: Ein Zeitun – “la nostra distruzione del villaggio”; Qeitiya – “molestie, minaccia di azione”; Almaniya – “la nostra azione, molti uccisi”; Tira – “consiglio ebraico amichevole”; Al’Amarir – “dopo la rapina e l’omicidio compiuti dai fuggitivi”; Sumsum – “il nostro ultimatum”; Bir Salim – “attacco all’orfanotrofio”; e Zarnuga – “conquista ed espulsione”.

All’inizio degli anni 2000, il Centro Yitzhak Rabin ha condotto una serie di interviste con ex personaggi pubblici e militari come parte di un progetto per documentare la loro attività al servizio dello Stato. Anche il lungo braccio del Malmab si è impadronito di queste interviste. Haaretz, che ha ottenuto i testi originali di molte delle interviste, li ha confrontati con le versioni ora disponibili al pubblico, dopo che gran parte di esse sono state dichiarate classificate…

LA QUESTIONE ABU AKLEH DIMOSTRA CHE GLI STATI UNITI FARANNO DI TUTTO PER DIFENDERE ISRAELE – GIDEON LEVY

Immaginate l’inimmaginabile: Ilana Dayan (o Yonit Levi) si reca in zona di disordini per riferire sull’occupazione. Viene colta in uno scontro a fuoco e un proiettile la colpisce al collo, nello spazio tra l’elmetto e il giubbotto antiproiettile. Lei muore. Cosa succede in quel caso? Israele cattura molto rapidamente la “cellula” palestinese. Non importa chi ha sparato, è del tutto insignificante, tutti i suoi membri vengono uccisi o condannati all’ergastolo. Israele piange la scomparsa della sua veterana giornalista.

Nessuno prende nemmeno in considerazione le prove forensi: non ce n’è bisogno. È chiaro a tutti chi siano gli autori dell’uccisione della giornalista. Gli Stati Uniti non pensano di interferire con le indagini, solo di censurare i palestinesi e partecipare al dolore della nazione ebraica, e forse anche di imporre sanzioni all’Autorità Palestinese per l’omicidio della giornalista. È evidente a tutti che la giornalista israeliana è stata uccisa perché era ebrea e perché era una giornalista. I suoi assassini, è così che saranno chiamati, ovviamente, intendevano ucciderla. Persino i bambini in Israele lo capiranno.

Ma Shireen Abu Akleh era una corrispondente di guerra palestinese, infinitamente più coraggiosa e determinata di Dayan e Levi messi insieme, ed è stata uccisa a Jenin. Israele, come al solito, se ne è lavato le mani e ha negato le sue responsabilità. Tutte le indagini che sono state pubblicate finora sulle circostanze della sua uccisione hanno portato a un’unica conclusione: le Forze di Difesa Israeliane le hanno sparato. Ma Israele continua a negarlo.

E poi è arrivata l’analisi forense, svolta alla presenza di un ufficiale dell’esercito americano. E questa è la conclusione: Il Dipartimento di Stato americano, preoccupato per la sicurezza dei civili, e particolarmente scioccato dai danni causati ai giornalisti, come dimostrato nel caso Jamal Khashoggi, ha annunciato che, sebbene sia impossibile determinare con certezza chi ha ucciso Abu Akleh, gli spari probabilmente provenivano dalle posizioni dell’esercito israeliano. E la battuta finale: “l’osservatore statunitense non ha trovato alcun motivo per credere che gli spari fossero intenzionali, ma piuttosto il risultato di circostanze tragiche”. Il proiettile danneggiato rimosso dalla ferita di Abu Akleh suggerisce agli esperti statunitensi che il tiratore non intendeva ucciderla. È stato l’esame balistico più elaborato della storia: un’analisi che esamina i pensieri più profondi, che discerne le intenzioni.

È difficile immaginare una mobilitazione più goffa, poco professionale, ridicola e persino offensiva al servizio della propaganda israeliana. Ancora una volta è stato dimostrato che l’America è disposta a fare qualsiasi cosa, assolutamente qualsiasi cosa, per proteggere il suo prezioso alleato; nascondere tutti i suoi crimini, farsi oggetto di ridicolo, ignorare i principi morali, legali e professionali, tutto per coprire Israele. L’America sta dicendo a Israele: continua a uccidere i giornalisti, per quanto ci riguarda va bene. Diremo sempre che non era voluto, che circostanze tragiche hanno ucciso Abu Akleh e non i soldati dell’unità antiterrorismo Duvdevan.

Anche gli americani non guardano la CNN. L’indagine della rete ha rivelato che si possono vedere altri tre o quattro fori di proiettile sull’albero contro cui Abu Akleh si trovava quando è stata colpita: proiettili sparati individualmente, non a raffica. Questo indica anche che non c’era alcuna intenzione di uccidere la giornalista, che si è riparato sotto l’albero?

Potrebbe essere possibile zittire, oscurare e ingannare così tanto al solo scopo di rendere più piacevole l’imminente visita del Presidente Joe Biden in Israele? Gli Stati Uniti considerano la copertura di un crimine un’espressione di amicizia nei confronti del suo autore?

“Chi ha ucciso Norma Jean?” ha chiesto Pete Seeger nella meravigliosa canzone che ha composto dalla poesia di Norman Rosten. “Chi l’ha vista morire / Io, disse la Notte, e un lume, l’abbiamo vista morire. Chi reggerrà il feretro? / Noi, disse la stampa, con dolore e angoscia, / porteremo il feretro. / Chi dimenticherà presto? / Io, disse il giornale, iniziando a sbiadire, / sarò il primo a dimenticare”.

Abu Akleh è morta e con lei gli ultimi resti di fiducia che gli Stati Uniti dicano la verità sul loro alleato. Grazie a questo, Israele può continuare a sostenere che non sapremo mai chi ha ucciso Shireen. Ma sembra che sappiamo molto bene chi l’ha assassinata. Egli cammina in mezzo a noi.

L’America sta dicendo a Israele: continua a uccidere i giornalisti, per quanto ci riguarda va bene. Diremo sempre che non era voluto.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

Fonte: https://www.haaretz.com/…/00000181-d488-dc50-a99f…

Tradotto da Beniamino Benjio Rocchetto  – da qui

In due strade il microcosmo dell’occupazione israeliana – Amira Hass

Mentre il governo di centrodestra cade a pezzi e i coloni intensificano i loro attacchi contro i palestinesi con l’aiuto dei soldati israeliani, parlare di due strade nel distretto di Ramallah sembra un lusso, quasi un suicidio giornalistico: a chi importa di queste bazzecole? Ma sono proprio le piccole cose, e il fatto di abituarsi a esse, che mostrano il successo della società israelo-ebraica nel violare sistematicamente il diritto internazionale, nella totale impunità.

Alcuni lavoratori non meglio identificati hanno completato una strada che passa nei territori di El Bireh e Ein Yabrud, a nord di Ramallah. È lunga tre chilometri, e misteriosamente collega gli insediamenti di Ofra e Beit El. L’Amministrazione civile israeliana nei Territori palestinesi ha confermato che la strada è illegale, ma non ha spiegato come sia stato possibile portare avanti dei lavori non autorizzati, con macchinari voluminosi, vicino alla sua sede principale e di fronte a due basi militari. Possiamo solo pensare che la strada illegale sia stata costruita con il benestare dell’esercito, mentre l’Amministrazione civile chiudeva un occhio a mo’ d’incoraggiamento, finché i palestinesi non hanno cominciato a protestare.

Grandi quantità di risorse e denaro; una mano (militare) che lava l’altra (civile); la consapevolezza che nessuno sarà punito: ecco le bazzecole che si nascondono dietro questa strada e le altre centinaia costruite con le stesse modalità nella Cisgiordania occupata. Accorciano il tragitto tra gli insediamenti e gli avamposti – tutti macchiati di spavalda criminalità israeliana – e tra questi e Israele. Sono saccheggi di terre e spazio, che abbiamo imparato con profitto dai nostri predecessori britannici, francesi, olandesi, portoghesi e altri ancora, in continenti diversi dal loro.

Israele eccelle anche nel rubare tempo ai nativi, come si può osservare in corrispondenza del blocco stradale all’ingresso del villaggio di Aaboud, a nordovest di Ramallah. L’avamposto militare è accompagnato dallo slogan: “La missione: vittoria in ogni scontro con il nemico”. È lo stesso atteggiamento che ha guidato i comandanti e i progettisti israeliani del passato: la terra del villaggio è stata rubata per costruire gli insediamenti di Beit Aryeh e Ofarim. In seguito, per la comodità e la crescita di quegli insediamenti, le strade che partivano dal villaggio verso ovest sono state bloccate in modo permanente. Nel maggio 2022 l’esercito ha fatto saltare un’antica chiesa del quinto secolo, la chiesa di Santa Barbara. “Non sapevamo fosse una chiesa”, si sono giustificati i militari. L’ignoranza è parte del necessario disprezzo per i nativi.

In cima alla strada d’ingresso c’è una barriera di metallo dipinta di arancione. La nazione high-tech sa come usare strumenti low-tech contro il nemico. Blocchi di cemento, una serratura e due soldati armati sono autorizzati in qualsiasi momento a rubare il tempo dei circa 2.500 abitanti. Varchi simili sono stati installati nella maggior parte, se non in tutte, le comunità palestinesi. Con un solo gesto, ogni villaggio può diventare una gabbia. L’esercito sostiene che sia a causa del lancio di pietre. Anche la vendetta collettiva è punita dal diritto internazionale. Ma coloro che danno ed eseguono gli ordini sanno che non saranno arrestati quando atterreranno a Berlino o a Roma.

La barriera è rimasta chiusa per due settimane. Le persone hanno sprecato tempo, fatica e carburante per prendere un’altra strada, più angusta. Calcolate un migliaio di persone, moltiplicatele per i trenta minuti di tempo sprecato per allungare il viaggio: sono cinquecento ore al giorno. Moltiplicate questa cifra per dodici giorni e otterrete seimila ore, da poter dedicare alla propria vita, al riposo, allo studio, al giardinaggio e alla famiglia, e che invece svaniscono.

Sprecare il tempo dei palestinesi è una delle armi meglio collaudate di Israele, insieme alla ridefinizione ingegneristica della geografia palestinese: chiudiamo i palestinesi in recinti sempre più stretti dagli insediamenti, e aumentiamo il tempo di percorrenza e la distanza con posti di blocco, interruzioni stradali, insediamenti, recinzioni, strade militari e così via.

La notte del 22 giugno la barriera è stata aperta. Il 26 giugno i soldati l’hanno richiusa. Senza che nessuno glielo abbia detto esplicitamente, sanno che una delle loro strategie per logorare la vita di anziani, giovani, donne e bambini è rubargli il tempo. Sono le piccole cose e la loro normalizzazione che mostrano il successo della società israelo-ebraica nel violare sistematicamente il diritto internazionale, nella totale impunità.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Chomsky sull’apartheid israeliano, le celebrità impegnate, il BDS e la soluzione

dello Stato unico – Ramzy Baroud & Romana Rubeo

Questo è, secondo il socialista italiano Antonio Gramsci, l’ ”interregno” – il momento raro e sismico della storia in cui si verificano grandi cambiamenti, quando imperi crollano e altri nascono, con la conseguenza di nuovi conflitti e battaglie.

L’ ”interregno” gramsciano, tuttavia, non è un passaggio facile, perché questi profondi cambiamenti spesso incarnano una “crisi”, che “consiste proprio nel fatto che il vecchio sta morendo e il nuovo non riesce a nascere”.

“In questo interregno compare una grande varietà di sintomi morbosi”, scrisse l’intellettuale antifascista nei suoi famosi “Quaderni dal carcere”.

Anche prima della guerra Russia-Ucraina e del successivo aggravamento della crisi Russia-NATO il mondo stava chiaramente vivendo una sorta di interregno: la guerra in Iraq, la guerra in Afghanistan, la recessione globale, la crescente disuguaglianza, la destabilizzazione del Medio Oriente, la ‘primavera araba’, la crisi dei profughi, la nuova ‘spartizione dell’Africa’, il tentativo statunitense di indebolire la Cina, l’instabilità politica degli stessi USA, la guerra alla democrazia e il declino dell’impero americano.

Gli eventi recenti, tuttavia, hanno finalmente dato a questi cambiamenti sconvolgenti una maggiore chiarezza, con la Russia che si è mossa contro l’espansione della NATO e con la Cina e altre economie emergenti – le nazioni BRICS [associazione che vede riuniti al suo interno cinque Paesi caratterizzati da un’economia in forte ascesa: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, con recente richiesta di adesione da parte di Argentina e Iran, ndt.].

Per riflettere su tutti questi cambiamenti e altro ancora abbiamo parlato con l’intellettuale “più citato” e rispettato al mondo, il professor Noam Chomsky del MIT [Massachusetts Institute of Technology, una delle più importanti università di ricerca del mondo – NDT.]

L’obiettivo principale della nostra intervista era di esaminare le sfide e le opportunità che la lotta palestinese deve affrontare durante questo “interregno” in corso. Chomsky ha scambiato con noi le sue opinioni sulla guerra in Ucraina e le sue vere cause profonde.

Tuttavia l”intervista si è concentrata in gran parte sulla Palestina, sulle opinioni di Chomsky riguardo il linguaggio, le tattiche e le soluzioni connesse alla lotta e alla questione palestinesi. Di seguito sono riportati alcuni dei pensieri di Chomsky su questi problemi, tratti da una conversazione più lunga che può essere visualizzata qui.

Chomsky crede che chiamare le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi “apartheid” sia in realtà un “regalo per Israele”, almeno se per apartheid si intende l’apartheid in stile sudafricano.

“Ho sostenuto per molto tempo che i Territori Palestinesi Occupati sono molto peggio del Sud Africa. Il Sudafrica aveva bisogno della sua popolazione nera, faceva affidamento su di loro”, dice Chomsky, aggiungendo: “La popolazione nera costituiva l’85% della popolazione. Era la forza lavoro; il paese non poteva funzionare senza quella popolazione e, di conseguenza, hanno cercato di rendere la loro situazione più o meno tollerabile da parte della comunità internazionale. (…) Speravano in un’approvazione internazionale, che non hanno ottenuto”.

Quindi, se i Bantustan [territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid, ndt.] erano, secondo Chomsky, “più o meno vivibili”, lo stesso “non vale per i palestinesi nei Territori Occupati. Israele vuole solo sbarazzarsi delle persone, non le vuole. E le sue politiche degli ultimi 50 anni, con poche variazioni, hanno in qualche modo reso la vita invivibile, in modo che le persone vadano da qualche altra parte”.

Queste politiche repressive si applicano all’intero territorio palestinese: “A Gaza, (loro) [Israele, ndt.] li annientano e basta”, dice Chomsky. “Ci sono oltre due milioni di persone che ora vivono in condizioni orribili, sopravvivono a malapena. Le organizzazioni di sostegno dei diritti internazionali affermano che probabilmente fra un paio d’anni non saranno nemmeno in grado di sopravvivere. (…) Nei Territori Palestinesi Occupati, in Cisgiordania, le atrocità (si verificano) ogni giorno”.

Chomsky pensa anche che Israele, a differenza del Sudafrica, non stia cercando l’approvazione della comunità internazionale. “La sfrontatezza delle azioni israeliane è piuttosto sorprendente. Fanno quello che vogliono, sapendo che gli Stati Uniti li sosterranno. Bene, questo è molto peggio di quello che è successo in Sud Africa; non è un tentativo di accogliere in qualche modo la popolazione palestinese come forza lavoro subordinata, è solo [un tentativo, ndt.] di sbarazzarsene”…

Dopo la morte di una anziana detenuta i palestinesi accusano il carcere israeliano di non averla curata

Saadia Farajallah, la più anziana detenuta palestinese, è morta sei mesi dopo essere stata aggredita da forze israeliane durante l’arresto

L’Associazione dei Detenuti Palestinesi ha informato che sabato [2 luglio], sei mesi dopo essere stata picchiata ed arrestata da forze israeliane nei pressi di un posto di controllo dell’esercito a Hebron, in un carcere israeliano è morta una sessantottenne palestinese.

L’Associazione dei Prigionieri ha accusato le autorità del carcere di Damon di non averle prestato le cure necessarie, in quanto a causa di molteplici patologie croniche, tra cui la pressione alta e il diabete, negli ultimi tempi la salute di Saadia Farajallah era peggiorata.

Afferma che le forze israeliane hanno brutalmente aggredito Farajallah quando il 18 dicembre 2021 l’hanno arrestata nella città vecchia di Hebron perché secondo loro avrebbe tentato un accoltellamento, e ciò ha peggiorato le sue già precarie condizioni di salute.

Il responsabile della Commissione dei Prigionieri ed Ex-Prigionieri, Ibrahim Najajra, ha smentito le affermazioni israeliana riguardo all’incidente, sostenendo che le condizioni di Farajallah le avrebbero impedito qualsiasi sforzo, tanto meno di tentare un’aggressione.

“Al momento la causa della sua morte non è chiara, ma le prime informazioni indicano che ha avuto un infarto ed è morta nella prigione di Damon,” dice Najajra a Middle East Eye.

“Il decesso di Saadia è una conseguenza della mancanza di cure mediche, (le autorità israeliane) non le hanno fornito assistenza adeguata, e della lunga detenzione in condizioni insalubri.”

La morte di Farajallah, la detenuta palestinese più anziana, porta a 230 il totale dei palestinesi deceduti nelle prigioni israeliane dal 1967.

Najajra ha sostenuto che il tribunale israeliano ha ripetutamente respinto le richieste degli avvocati di rilasciare Farajallah, a cui durante la detenzione sono state negate le visite dei familiari.

L’Associazione dei Detenuti Palestinesi ha affermato che Farajallah ha perso conoscenza dopo aver fatto le abluzioni per la preghiera del mattino. Le compagne di detenzione l’hanno subito portata all’ambulatorio della prigione, dove è deceduta.

L’Associazione dei Detenuti afferma che il 28 giugno Farajallah aveva assistito a un’udienza in tribunale su una sedia a rotelle, e in quell’occasione il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a cinque anni di prigione e al pagamento di un’ammenda di 15.000 shekel (circa 4.000 €). In seguito a esami medici che avevano evidenziato il peggioramento del suo stato di salute la sua avvocatessa aveva chiesto che le autorità carcerarie la facessero visitare da uno specialista.

Najajra afferma che la commissione dei detenuti cercherà di avviare un’indagine per scoprire la causa della morte di Farajallah e le circostanze che l’hanno determinata.

Secondo l’associazione palestinese per i diritti dei detenuti Addameer nelle prigioni israeliane ci sono 4.700 palestinesi, tra cui 32 donne e 170 minorenni.

Circa 640 di questi si trovano in “detenzione amministrativa”, un controverso provvedimento che Israele adotta per tenere in carcere [palestinesi] senza accuse o processo per periodi rinnovabili da tre fino a sei mesi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

Parlare di Palestina non si può – Francesca Albanese

La Palestina – ovvero ciò che è rimasto della Palestina storica alla creazione dello Stato di Israele nel 1948 –, comprendente Cisgiordania, Gerusalemme est e Striscia di Gaza, è terra che Israele occupa militarmente dal 1967.

È bene ribadire da subito che il diritto internazionale ammette le occupazioni militari solo in forma temporalmente limitata, con precisi vincoli di tutela della popolazione sotto occupazione e, soprattutto, senza mai trasferire sovranità alla potenza occupante.

Lo Stato di Israele viola sistematicamente questi principi dal 1967, a mezzo di continui trasferimenti di civili e costruzione di colonie nella Palestina occupata. Negli ultimi decenni tali violazioni sono state condannate ripetutamente dalle principali istituzioni internazionali, da ultimo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite.

Le organizzazioni umanitarie concordano che tale occupazione sia illegittima e illegale, poiché condotta tramite usi proibiti della forza armata e allo scopo di annettere territorio palestinese allo Stato di Israele, sfollando i palestinesi che vi abitano. A fronte di tale realtà, ampiamente documentata, è necessario che la politica si conformi ai precetti del diritto internazionale, sanzionando Israele e sostenendo i palestinesi nel processo di autodeterminazione loro assegnato non da questa o quella fazione politica, ma dai più fondamentali principi della comunità internazionale.

È con questa consapevolezza che due mesi fa ho assunto il ruolo di Relatrice speciale delle Nazioni unite sui diritti umani nel territorio palestinese occupato, conferitomi dal Consiglio Diritti Umani dell’Onu. Con l’ulteriore sfida e onore dell’essere la prima donna a ricoprire questo delicato incarico, ne ho assunto la responsabilità pienamente consapevole delle difficoltà che avrei incontrato.

La prima difficoltà è che negli ultimi trent’anni i diritti del popolo palestinese abbiano smesso di far notizia, sebbene la Palestina resti teatro di un acerrimo scontro tra giustizia e prevaricazione, diritto e abuso, legalità e, ahimè, realpolitik ispirata puramente da rapporti di forza. A due mesi dall’inizio del mandato, ho toccato con mano l’impossibilità di discutere di Palestina pur seguendo un approccio strettamente giuridico.

Dinanzi a chiunque opponga alle logiche dei rapporti di forza un’etica guidata dalla forza del diritto, cala una cortina di ostilità e spesso violenza verbale, in nome della difesa ideologica delle politiche dello Stato di Israele.

Valga come esempio la mia audizione del 6 luglio scorso presso la Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati, che mi aveva invitato a riferire sulla situazione oggetto del mio mandato. Dopo un mio intervento di cui aveva evidentemente ascoltato poco e capito meno, il presidente della Commissione, on. Piero Fassino, invece di moderare il dibattito al fine di acquisire elementi utili alle deliberazioni parlamentari, si è lanciato in un j’accuse nei miei confronti tanto inopportuno quanto ingiustificato.

L’accusa verteva sulla mia presunta mancanza di «terzietà», evidentemente per non aver equiparato, nel mio intervento sui continui abusi da parte delle forze israeliane nei confronti dei palestinesi, l’occupante e l’occupato, il colonizzatore e il colonizzato. Il rispetto di ogni critica è parte integrante della mia interpretazione del mandato conferitomi. Ho però il dovere primario, proprio sulla base di questo mandato, di denunciare le violazioni del diritto internazionale.

Pur essendomi limitata a questo doveroso compito nell’audizione, l’on. Fassino, evidentemente irritato dall’esercizio dei miei doveri istituzionali, è giunto ad attribuirmi frasi recanti forme di legittimazione della violenza che né io ho mai pronunciato, né alcun intervistatore ha mai trascritto. Altraeconomia lo ha prontamente dimostrato riportando le mie dichiarazioni originarie di condanna della spirale di violenza che l’occupazione perpetua, ad arte decontestualizzate dall’on. Fassino.

Nel criticare la mia eccessiva attenzione «al dato giuridico», l’on. Fassino ha altresì sminuito il ruolo centrale del diritto internazionale nella risoluzione dei conflitti, che pur costituisce parte integrante dell’ordinamento repubblicano.

L’idea che il diritto internazionale sia cogente per i nemici e facoltativo per gli alleati è una declinazione pericolosa del concetto di autonomia della politica, che da giurista non posso esimermi dal condannare.

Come ricorda Edward Said, una lotta per i diritti si vince «con le armi della critica e l’impegno della coscienza». Ed è questo che continuerò a promuovere nell’esecuzione del mio mandato, un dibattito sano, pluralista e informato sulla questione israelo-palestinese, partendo – qualsiasi siano le letture storiche e politiche del «conflitto» e delle sue radici – dalla forza regolatrice del diritto internazionale, unica bussola possibile nel buio fomentato da oltre un secolo di realpolitik.

*Relatrice speciale delle Nazioni unite sui diritti umani nel territorio palestinese occupato

Onu: Israele ha ucciso 78 bambini palestinesi nel 2021

Il segretario generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), Antonio Guterres, ha riferito nel rapporto annuale dell’organizzazione su “bambini e conflitti armati”, pubblicato ieri, che le truppe israeliane hanno ucciso 78 bambini palestinesi, mutilato altri 982 e arrestato 637 durante l’anno 2021.

“Se la situazione si ripeterà nel 2022, senza miglioramenti significativi, Israele dovrebbe essere nella lista “, avverte Guterres nel rapporto, riferendosi alla cosiddetta “lista della vergogna” delle Nazioni Unite, nota anche come “lista nera”, che comprende organizzazioni e paesi che violano i diritti dei bambini nelle zone di conflitto in tutto il mondo.

Il capo delle Nazioni Unite si è detto “scioccato” dai bambini palestinesi uccisi o feriti dagli attacchi aerei israeliani in aree densamente popolate e dall’uso di proiettili veri da parte delle forze israeliane, nonché dalla “continua mancanza di responsabilità [di Israele] per queste violazioni.”

Guterres ha anche espresso seria preoccupazione per l’uso eccessivo della forza nei territori palestinesi occupati, esortando “le forze israeliane a esercitare la massima moderazione… per proteggere vite”. In questo contesto, ha invitato Israele a indagare su tutti i casi in cui i suoi militari hanno utilizzato proiettili veri.

Per quanto riguarda i bambini palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, Guterres ha sottolineato la necessità che Israele aderisca agli standard internazionali in materia di arresto dei minori e metta fine alla cosiddetta “detenzione amministrativa” dei bambini, nonché ai maltrattamenti e alle violenze nelle carceri.

La politica di detenzione amministrativa è una modalità che consente ai palestinesi di essere incarcerati senza accusa né processo, per periodi fino a sei mesi, prorogabili un numero illimitato di volte.

I gruppi per i diritti umani, a loro volta, descrivono l’applicazione della detenzione amministrativa da parte di Israele come una “tattica fallimentare” e hanno chiesto a lungo, anche se invano, che Israele ponesse fine a questa pratica.

L’esercito israeliano è stato criticato per il suo uso diffuso e sistematico della forza contro i palestinesi, ma il regime di Tel Aviv sta ignorando gli avvertimenti, aumentando persino le atrocità contro il popolo oppresso della Palestina.

Le donne s’incontrano a Gaza – Alessandra Mecozzi

[…] Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente più di una piccola e povera città che resiste. Quando ci chiediamo cos’è che l’ha resa un mito, dovremmo mandare in pezzi tutti i nostri specchi e piangere se avessimo un po’ di dignità, o dovremmo maledirla se rifiutassimo di ribellarci contro noi stessi. Faremmo torto a Gaza se la glorificassimo. Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarla. Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà. Non ha cavalleria, né aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere. In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra lingua e i suoi invasori. Se la incontrassimo in sogno forse non ci riconoscerebbe, perché lei ha natali di fuoco e noi natali d’attesa e di pianti per le case perdute.

Silenzio per Gaza da Diario di ordinaria tristezza (1973) in Una trilogia palestinese di Mahmoud Darwish, Milano, 2018, pp. 118-119.

Sono passati quasi 40 anni da quando Mahmoud Darwish, uno dei maggiori poeti del Novecento, ha scritto questo testo in prosa che, ancora oggi, suscita sentimenti di amore per Gaza, le sue sofferenze e la sua bellezza deturpata.

Sentimenti che circolavano, naturalmente, anche nel primo Forum Internazionale delle Donne: tre intensi giorni di lavoro condiviso con attiviste palestinesi e italiane. Un momento di incontro strutturato in diversi workshop, dedicati a tematiche di genere, salute e diritti delle donne, lotta al patriarcato. Il forum è stato realizzato grazie all’impegno di numerose associazioni femminili locali: Association for women and child protection (AISHA), Creative Womens, Democracy and workers’ Rights Center (DWRC), Palestinian Development Women Association (PDWSA), Union of Palestinian Women Committees (UPWC), We’re Not Numbers e Girls in Green Hopes Gaza. Con loro il Centro italiano di scambio culturale “Vik”, dedicato alla memoria di Vittorio Arrigoni e diretto da Meri Calvelli, e le italiane Gaza Free Style, ACS, Mutuo Soccorso Milano e Casa delle Donne di Roma.

Nel bell’albergo Al Mathaf – “Il museo”, perché espone una collezione di pezzi archeologici – abbiamo incontrato oltre 100 donne palestinesi, di 7 associazioni diverse, per la maggior parte giovani e giovanissime, insieme a una quarantina di ragazze italiane della rete Gaza Free Style, protagoniste attive e impegnate, quasi tutte per la prima volta a Gaza. Al centro degli incontri grande curiosità, e grande affetto.

Idee e pratiche, tra guerra e creatività

La scrittura è al centro del progetto “We’re Not Numbers” (WANN), nato dopo il terribile attacco israeliano del 2014, nell’ambito dell’EuroMed HR Monitor. La sua sede, situata vicino alla libreria e biblioteca “Samir Mansour”, a Gaza City, è stata distrutta da due missili israeliani nel maggio 2021, poi ricostruita, ed è ora diretta da giovani. Ne parla la direttrice, Enas Fares Ghannam. “WANN vuol creare una nuova generazione di artiste e artisti globali”, spiega, “per un profondo cambiamento nel modo di parlare della causa palestinese”. Cambiare la narrativa, parlando di Palestina direttamente al mondo, senza intermediari, è uno dei suoi obiettivi ed anche il più attuale nella lotta palestinese. Come scriveva nel 2016 il giornalista palestinese Ramzy Baroud: “È vero, le guerre hanno devastato Gaza e l’assedio non consente a questo territorio di sfruttare e valorizzare il suo grande capitale umano. Ma non ne hanno sfigurato l’essenza, non ne hanno intaccato l’umanità. Gaza resta la patria di poeti, artisti, danzatori di dabka e spiriti indomiti, di un popolo fiero e incapace di piegare la testa. Ho capito che siamo tutti colpevoli della disumanizzazione di Gaza. Nel tentativo di far emergere le violazioni dei diritti umani da parte di Israele, alcuni alimentano un tipo di narrazione che nega ai gazawi lo status di esseri umani forti e dignitosi, creativi, pieni d’amore e volontà di resistere”2.

Durante tutto il Forum sono circolate emozioni, commozione e allegria, con una spinta prevalente: quella della reciproca curiosità. Abbiamo ascoltato con attenzione gli interventi che si sono succeduti dopo la presentazione di Meri Calvelli, direttora del Centro italiano di scambio culturale “Vik”, e i video messaggi arrivati da donne in altre parti del mondo. Il più emozionante è stato quello di un’attivista afghana, che ha denunciato in clandestinità la guerra in corso contro le donne nel suo paese, dopo anni di occupazione da parte degli Stati Uniti. Tra le attiviste riunite a Gaza c’era fame di ascoltare e parlare, far sapere e conoscere, anche nelle chiacchierate fuori dal Forum. Per chi è crudelmente rinchiuso da un assedio quasi totale da 15 anni, senza alcuna libertà di movimento, quei giorni trascorsi con un pezzo di mondo esterno hanno voluto dire poter respirare, forse anche dimenticare per qualche attimo una condizione claustrofobica.

Tanti sono stati i temi ricorrenti, su cui la sintonia tra palestinesi e italiane è stata immediata: la violenza contro le donne, la guerra, l’arte e la cultura, il rifiuto di considerarsi ed essere considerate vittime. Anche il «separatismo» che pensavamo fosse non richiesto in una società in cui vige la regola della separazione donne-uomini e dell’inferiorizzazione delle donne, si è rivelato un terreno comune. In uno dei workshop a cui abbiamo partecipato, sul femminismo, nella sede dell’associazione Creative Womens, una giovanissima donna di 16 anni, Nasreen, ha chiesto e ottenuto che gli uomini uscissero dalla stanza. Ha sorpreso alcune più anziane, ma suscitato simpatia e vicinanza affettuosa, quando ha spiegato che «nessuno può permettersi di non farmi realizzare i miei sogni. Io cerco di operare il cambiamento che voglio vedere». Nasreen non si è arresa alla guerra, alla morte di sua madre, all’ingiustizia. Subito dopo l’attacco israeliano, letale, del maggio 2021, è stata proprio lei a lanciare l’iniziativa «Trauma free Gaza» per «cercare di liberare le menti». Avviata come uno scambio virtuale di racconti ed esperienze, è poi diventato uno spazio anche per ricevere informazioni e consigli di psicologi ed esperti. La perseveranza, o sumud, come si dice qui, viene alimentata e coltivata come una pianta preziosa. Come spiega Mervat, giovane sportiva che gioca a calcio e a basket: “Dopo ogni guerra dobbiamo scrollarci la polvere di dosso e andare avanti”.

Andare avanti vuol dire anche riuscire a procurarsi reddito per sé e la propria famiglia. Chi ha perso la casa non gode di alcun indennizzo, chi è stata costretta a scappare per sottrarsi con i figli ai bombardamenti, ha dovuto rifugiarsi nelle scuole gestite dall’UNRWA. «Le donne più degli uomini hanno una relazione forte con la casa, perderla vuol dire perdere una parte di sé, il sentimento della vita. Siamo forti, abbiamo più responsabilità, perché vogliamo proteggere, prenderci cura non solo di noi stesse, ma di altre donne, di tutta la società», spiegano in tante. Chi non riesce a scappare, si raggruppa con tutta la famiglia in un’unica stanza, «per poter morire insieme».

Terribile frase che abbiamo sentito pronunciare più di una volta. Chi sopravvive si trova in una condizione drammatica. Nella strada dove si trova la sede, danneggiata, delle Creative Womens, vivono altre donne la cui casa è andata distrutta dalle bombe. Si aggiunge la beffa di non trovare più chi affitta una casa, perché considerata un target dei bombardamenti. A noi chiedono soprattutto di far sapere nel nostro paese, al mondo, che cosa succede qui: “Portate il nostro messaggio: noi siamo umane. Dite a Israele di porre fine a questo blocco di 15 anni: ci meritiamo di vivere in pace”.

“Non vogliamo regali – dice Dunia, una delle donne più energiche delle Creative Womens, direttora dell’associazione – noi lavoriamo e possiamo vendere i nostri prodotti”. Così ci accorderemo con lei il giorno dopo per vendere in Italia alcuni dei bellissimi oggetti con ricami tatreez3 che producono. Posso portarne ben pochi, altri arriveranno forse con gli ultimi a rientrare della composita carovana organizzata da Gaza Free Style: i circensi, che si sono fermati per offrire uno spettacolo di circo nel tendone del Gaza Green Hopes4, con grande gioia di centinaia di ragazzini, gran parte della popolazione di Gaza.

Mariam Abu Dakka: una combattente

Mariam ha 70 anni, è una delle pochissime «veterane» che intervengono al Forum. E’ una donna conosciuta e amata, interviene alla fine della prima e dell’ultima giornata. Sempre con grande passione, applauditissima. Anche per lei il tema della cultura è molto importante per il cambiamento, che possono e devono portare le giovani: loro capiscono subito, maneggiano sapientemente la tecnologia, hanno molta energia. «Basta con la vecchia leadership», sostiene. È una donna che ha lottato tutta la vita per la sua libertà e quella della sua terra. È felice di questo incontro: “conoscerci – dice – vuol dire amarci”. Si sente a suo agio in questo Forum femminista: i femminismi palestinese e italiano lottano per cose diverse, ma i temi della democrazia e dell’uguaglianza sono comuni. «Contro le politiche di Israele serve l’unità delle donne palestinesi con le donne nel mondo». Anche Mariam parla della necessità di un femminismo globale, perché le donne insieme possono cambiare i sistemi di potere, ma bisogna partire da sé: conoscere e rispettare se stesse come passo essenziale per scardinare la cultura tradizionale. «Io ho una lunga storia di lotta: militare, politica, sociale ed economica”, spiega. “Aiuto le giovani ma lavoro in mezzo al popolo». È convinta che le donne siano protagoniste di una rivoluzione che contribuisce alla liberazione della Palestina, lottando, come nella sua esperienza, su tre fronti: quello di classe, quello contro l’occupazione e quello per la propria libertà. Aggiungendo che è indispensabile agire come palestinesi contro la divisione, sociale e politica: questo è un punto su cui il suo discorso vuole arrivare a tutte le donne e a tutti gli uomini…

Palestine Speaks. Cosa significa essere palestinese in Germania – Berlin Migrant Strikers

A seguito della violenta repressione a Berlino durante il giorno della Nakba, Berlin Migrant Strikers ha organizzato un’intervista che indaga l’identità palestinese al di fuori della terra di Palestina. Tra chi è nato in Europa e chi è “indefinito”. Tra razzismo e resistenza. Tra nuove e vecchie generazioni contro l’apartheid

Palestina Speaks era tra gli organizzatori del flashmob violentemente represso a Berlino il 15 maggio. Abbiamo organizzato questa intervista per parlare del gruppo e di cosa significa essere palestinese in Germania.

Puoi parlarci di Palestine Speaks?

Palestine Speaks (PS) è un gruppo fondato nel 2019 da palestinesi che vivono in Germania, coscienti della frammentazione della comunità palestinese per via della repressione che subiamo. Non è facile parlare di Palestina in Germania. In quell’anno in particolare il Bundestag (Parlamento) aveva votato una risoluzione per togliere risorse finanziarie e spazi pubblici a movimento BDS (Boycott, Divestment and Sanctions).

Noi palestinesi ci siamo resi conto che bisognava fare qualcosa. L’idea alla base di PS è concentrarsi sulla repressione che subiamo in Germania, denunciarla pubblicamente, rendendo più’ visibili le nostre voci.

La tua famiglia viene da Gaza ma tu sei nata nella Germania occidentale. Molti palestinesi vivono la stessa esperienza: alcuni sono nati in Europa, altri sono arrivati ​​qui come rifugiati. In che modo questa miscela influenza il gruppo?

Crescere in un campo in Libano, in Siria, a Gaza o in Cisgiordania è qualcosa che modella la tua esperienza. Anche se esiste una forte alleanza su determinati valori e idee, queste diverse esperienze influenzano le nostre visioni del futuro. A volte è impegnativo, a volte è stimolante perché impariamo gli uni dagli altri. Ad esempio le persone che vengono dalla Siria o dai territori occupati conoscono molte tattiche per mobilitarsi in strada e muoversi in un sistema repressivo. Per noi cresciuti e socializzati qui in Germania è qualcosa di importante.

Com’è stato crescere come palestinese in Germania? Nel giorno della Nakba a Berlino è stato lampante il livello di repressione nelle strade, ma sappiamo che c’è una repressione ben più nascosta che puoi sperimentare sin da bambino, ad esempio nel sistema scolastico tedesco.

A scuola impari a conoscere la Palestina attraverso il conflitto israeliano o dalle esperienze degli ebrei in Germania. Ma la Palestina esisteva anche prima. Quando ti viene chiesto da dove vieni – e ti viene sempre chiesto anche se sei nata qui, dato che non sei una tedesca bianca! – e rispondi: «Palestina», arriva la domanda: «Ma tu accetti Israele come Stato?»

La mia identità è stata quindi sempre in relazione con Israele. Sono cresciuta con questa costante interiorizzazione della narrativa dominante, con questo linguaggio prudente: «No, certo, non ho niente contro Israele». Negli anni il linguaggio è cambiato. Qualche anno fa non si sarebbe parlato di Israele come di un Stato di apartheid, nemmeno all’interno di molti gruppi palestinesi in Germania.

È stato difficile prenderne coscienza per creare poi una propria narrativa. E questo per me è stato possibile solo quando sono entrata in contatto stretto con altr* attivist* palestinesi. È stata un’esperienza di empowerment.

Hai la sensazione che la repressione nei confronti dei palestinesi sia aumentata rispetto al passato?

La repressione è diventata più visibile, non sono sicura sia aumentata. E se è più visibile è anche un segno che noi diventiamo più visibili e forti. Ma c’è sempre stata, in forme diverse.

Negli anni ’60 e ‘70 la diaspora palestinese in Germania era un centro di resistenza e di mobilitazione, con i suoi media e giornali, diverse forme di attivismo, con le sue organizzazioni – operaie, femminili ecc. – sotto l’egida dell’OLP e con una forte connessione con la sinistra tedesca. Poi questa resistenza fu inquadrata nella cornice del terrorismo di sinistra e cominciò il periodo di repressione.

Il processo di frammentazione è successivamente aumentato con l’istituzione dell’Autorità palestinese e la creazione dell’idea dei Territori palestinesi, che hanno spostato il fuoco e la mobilitazione lontano dalla diaspora. E con l’11 settembre, la repressione ha preso la forma della lotta al terrorismo islamico.

Ci sono poi altre forme di repressione. Non troverai ad esempio statistiche su quanti palestinesi vivono in Germania, sono categorizzati come «indefiniti» o contati come provenienti dai Paesi in cui si sono trasferiti, come il Libano o la Siria. Non poter contare le persone è un modo per renderle invisibili.

C’è poi la criminalizzazione degli spazi. Neukölln per esempio (quartiere a maggioranza araba e turca) è inquadrata come area in cui regnano clan criminali arabi, una forma razzista che criminalizza a prescindere le persone che ci vivono. Non è direttamente una forma di repressione contro la popolazione palestinese, ma una in cui le persone subiscono quotidianamente la violenza e la repressione della polizia. Il razzismo anti-palestinese interseca anche altre forme di razzismo, quello anti-musulmano e anti-arabo.

Com’è l’interazione con i gruppi della sinistra tedesca?

Da diversi decenni nella scena della sinistra tedesca sono emersi i cosidetti Antideutsche (sinistra antiautoritara pro-Israele) probabilmente gli attori più visibili e aggressivi che si mobilitano contro i palestinesi. Anche i partiti tradizionali della sinistra, sia a Berlino che a livello federale, inseriscono la questione palestinese nella cornice “antisemita”, così dominante all’interno del sistema politico tedesco. Ovviamente ci sono tanti gruppi diversi all’interno della sinistra ed è difficile generalizzare, ma rimane il fatto che è molto difficile costruire alleanze all’interno delle strutture tedesche dominanti.

La maggior parte della solidarietà proviene dai gruppi della sinistra migrante, specialmente qui a Berlino. Il che è qualcosa di positivo, perché troviamo intersezioni nelle forme di repressione diverse eppure simili a cui siamo soggetti – penso ai gruppi curdi, per esempio.

PS ha una posizione più intersezionale e internazionalista, più progressista rispetto ad altri gruppi palestinesi di oggi.

Sì, ma volte è difficile affermare che siamo internazionaliste o intersezionaliste, femministe o queer: è un processo di decostruzione di quelle gerarchie di potere che sono ancora basate sul genere e c’è ancora molto lavoro interno da fare.Ma è già qualcosa rispetto a dire: «Prima liberiamo la Palestina e poi parliamo di femminismo». Ora i due punti procedono insieme.

La nostra posizione è che non c’è Palestina libera senza persone FLINTA (Frauen, Lesben, Inter, Non-Binary, Trans und agender) libere. Non possiamo avere un sistema libero avendo delle gerarchie in gioco. Diversi tipi di liberazione devono andare di pari passo.

Qual è il legame tra le vecchie e nuove generazioni di palestinesi?

Non è facile generalizzare. Le generazioni più vecchie hanno più spesso forti legami con diverse frazioni dell’OLP e hanno una maggiore accettazione dell’Autorità Palestinese. Su questo c’è un conflitto soprattutto con le giovani generazioni cresciute in Palestina, che vedono l’Autorità Palestinese come un’estensione dell’occupazione e dell’oppressione. È una posizione critica che anche io ho imparato attraverso le loro esperienze.

Allo stesso tempo però dobbiamo riconoscere alle generazioni più vecchie i lunghi anni di lotta in un sistema repressivo, così che questo conflitto generazionale è anche qualcosa da cui possiamo imparare gli uni dagli altri e che dovremmo sfidare.

Come vi rapportate con le richieste dei palestinesi in Palestina?

Non crediamo nella narrativa della soluzione a due stati. Non vogliamo avere uno stato di apartheid, ma allo stesso tempo il futuro è qualcosa difficile da immaginare. Esistono molteplici idee e ci vorranno anche decenni per avere un processo in cui potremmo costruire delle soluzioni.

Anche all’interno di PS, che alla fine è un piccolo gruppo, siamo molto allineati su alcune posizioni, ma ci sono poi differenze quando arriviamo a parlare di come dovrebbero essere realizzate.

Oltre a questo, noi che non viviamo in Palestina abbiamo sempre un’idea costruita del nostro Paese, a volte romanticizzata. Ecco perché a volte è più facile per me concentrarmi sul contesto in Germania. Viviamo qui ed è qui che dobbiamo aumentare la consapevolezza e costruire alleanze.

Negli anni ’60 o ’70 era forse molto più facile, c’erano ideologie dominanti e posizioni più nette. D’altra parte penso che non avere una posizione dominante sia anche positivo, così da evitare di emarginare qualcuno. Dobbiamo imparare a lottare senza rischiare la frammentazione e i conflitti.

Il processo di “decolonizzazione” della Palestina è spesso ridotto a un’opposizione tra palestinesi e israeliani. Ma non dovrebbe invece essere inteso come un processo comune, in cui anche gli israeliani devono decolonizzare se stessi?

Esattamente. Da qui la nostra alleanza con Jüdisches Bund e Jüdische Stimme (gruppi di attivisti anti-sionisti di origine ebraica). È un processo che dobbiamo affrontare collettivamente con persone consapevoli della loro posizione. Dovremmo lavorare insieme per vedere la decolonizzazione non in chiave di separazione ma creando una narrazione comune. Dovremmo evitare le contrapposizioni in cui talvolta ci è capitato di cadere.

L’obiettivo principale è liberare la Palestina e decolonizzare sia la Palestina che Israele. Ma quali sono i passi per raggiungerlo?

La Palestina non è solo in Palestina: i palestinesi sono dispersi in tutto il mondo, in aree geografiche molto diverse. Quindi la decolonizzazione della Palestina non avviene solo in Palestina, ma ad ogni latitudine: anche qui e in tutti gli altri luoghi in cui i palestinesi sono enormemente repressi, emarginati e resi non visibili. Il primo passo è rendere più visibile la questione della Palestina e dei palestinesi. Penso che qualcosa stia cambiando, qui in Germania è una prova della nostra resistenza.

Avete richieste specifiche alla Germania?

Chiediamo alla Germania di non essere complice con lo stato di apartheid. Lo abbiamo visto chiaramente nel modo in cui ha represso le manifestazioni durante i giorni della Nakba. Tanti video testimoniano come il modo in cui le forze di sicurezza israeliane reprimono le lotte palestinesi sia lo stesso della polizia tedesca.

È un sistema interconnesso che non è possibile separare. Per questo anche lotta è interconnessa: i nostri discorsi sono influenzati dall’esperienza palestinese in Palestina, pur potendoci alla fine concentrare solo nel contesto in cui viviamo. Questo è il luogo dove puoi combattere. Impariamo dalla resistenza in Palestina come resistere all’oppressione qui.

TUTTE LE  VIGNETTE (tranne l’ultima) SONO DI VINCENZO APICELLA: è il nostro modo per ricordare un compgno e un sostenitore della causa palestinese.

Grazie per questa raccolta di interventi sulla questione palestinese. Spero che siano in molti a leggere e costruire la necesaria coscienza di una forte critica all’Anp ed al traditore abu mazen e di conseguente con il necessario sostengo della Resistenza contro l’occupazione ed i traditori.

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