Nuove domande per antichi edifici: un dialogo possibile

2022-06-25 06:00:48 By : Ms. Carly Cai

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L’evoluzione nel formare ed attrezzare gli spazi pone problemi nuovi nel rapporto tra installazioni tecnologiche e costruito storico. Attraverso una serie di casi di studio si propone un approccio metodologico generale che afferma la necessità della conoscenza preliminare dell’oggetto e del contesto, un atteggiamento selettivo rispetto al valore del bene architettonico ed ai vantaggi derivanti dalle nuove dotazioni, ma soprattutto la necessità di interrogarsi sul vero ruolo degli impianti nel futuro.

A cura di: Arch. Michele Ghirardelli

La tendenza evolutiva degli ultimi decenni ha portato a domande nuove per progettisti, esecutori, fruitori del nostro patrimonio costruito.

È un discorso vasto, che trova la sua complessità proprio nell’estrema interdipendenza tra problemi di natura diversa. Come tutti i problemi grandi ed articolati, è utile “smontarlo” nelle sue parti.

Pertanto, le note che seguono vogliono essere una prima riflessione, necessariamente schematica, su alcun aspetti fondamentali, senza dimenticare che questi si collocano in un sistema ben più vasto.

É noto che in un paese come l’Italia, più frequentemente che in altri scenari, ci si rapporta con una massa di costruzioni esistenti totalmente prioritaria rispetto alle nuove realizzazioni.

All’interno di questo grande numero (l’Italia ha una vocazione millenaria alle concentrazioni urbane “dense”, grandi o piccole che siano) occorre inoltre distinguere tra un’eredità storica di pregio o comunque di interesse, e un volume assolutamente preponderante di edifici nati nel secondo dopoguerra, ma già fortemente datati in termine di prestazioni.

In poche parole, la maggior parte dell’attività di chi è coinvolto nel processo edilizio-architettonico, oggi richiede uno sforzo di confronto con situazioni che si originarono con parametri totalmente differenti da quelli attualmente e in prospettiva necessari.

Inutile ricordare che questa necessità non asseconda solo la domanda di qualità legata alle dinamiche immobiliari e al miglioramento tendenziale (crisi economiche e socio-politiche permettendo) delle abitudini di vita. Incide su temi ben più vitali, quali la sicurezza, la salute, la tutela ambientale, quindi porta ad interrogarsi sulla possibilità o meno di sopravvivenza di un’intera cultura insediativa, edificatoria, abitativa.

Due aspetti, in particolare, non erano contemplati in passato, o se lo erano, ciò avveniva con parametri del tutto differenti per quantità e qualità: il benessere termoigrometrico/acustico e la dotazione impiantistica.

Praticamente è come se nei nostri edifici oggi ci fossero due “abitanti” in più, che richiedono propri assetti distributivi, propri spazi dedicati, proprie soluzioni prestazionali. Questi fruitori, con cui è utile convivere, sono gli strati coibenti e gli strati-condotti-intercapedini-terminali impianti.

Sempre semplificando, potremmo affermare che questi due aspetti, per quanto richiedano spazi ed accorgimenti speciali, si “insediano” in modo generalmente consonante.

Infatti, entrambi presuppongono l’esistenza di spessori isolanti, di layers diversificati, di intercapedini, di vuoti (ad esempio per i transiti, raccordi e ispezioni degli impianti) di discontinuità (ad esempio per l’interruzione dei ponti termici).

La complessità degli impianti attuali amplifica il problema.

Le nuove tecnologia domotiche, per quanto aiutino enormemente sul piano dell’efficacia delle connessioni e funzioni, aumentano ulteriormente la presenza di cablaggi, sino a quando la parallela evoluzione dei sistemi wireless non avrà fatto ulteriori passi avanti.

Va invece rilevato che il tema dell’efficienza strutturale e sismica porta (sempre generalmente) in controtendenza alla ricerca del “pieno” e della continuità di connessioni.

Quest’ultimo aspetto allargherebbe ulteriormente il panorama che qui si intende esplorare.

Ulteriore campo tutto da esplorare è quello dell’accumulo di energia (sia termica che elettrica). L’efficienza energetica e lo sviluppo delle fonti rinnovabili mette a disposizione grandi quantità di risorse, ma ad oggi è facile l’utilizzo immediato, mentre lo stoccaggio è  ancora il vero collo di bottiglia (costi e volumi).

Anche la trattazione di questo tema costituirebbe un capitolo a se’.

Per semplicità espositiva, per ora ci si accontenta di segnalare questo terzo “nuovo abitante”, l’impiantistica e la coibentazione, da accogliere con ulteriori approfondimenti progettuali.

Occorre un lavoro paziente di conoscenza, analisi e lettura.

Molti edifici vecchi o antichi, hanno una serie di risorse palesi o nascoste, che sono nate magari con motivi ed intendimenti del tutto diversi, e che magari hanno perso nel tempo questa loro funzione o necessità. Elementi che possono trovare nuovo significato.

A ulteriore indicazione metodologica generale, si aggiunge che, soprattutto per gli edifici di maggiore pregio storico-artistico, queste presenze diversificano notevolmente la qualità delle parti (ad esempio un intradosso da un estradosso, un fronte da un retro, ecc), permettendo di creare una gerarchia di valori e quindi di possibilità di nuovo intervento.

Il discorso è delicato, e richiede grande onestà intellettuale.

Il “restauro filologico” è un obiettivo prezioso e necessario, da perseguire al massimo possibile.

Ma non si può negare che esigenze nuove comportano spesso anche elementi del tutto nuovi, inaspettati ed anche estranei se rapportati solo alle logiche generatrici originarie del bene architettonico.

Basti pensare al dibattito, spesso spigoloso, sull’illuminazione notturna degli edifici monumentali.

Allora, forse non ha tanto senso domandarsi se il nuovo elemento sia consono alle logiche dell’edificio antico, quanto piuttosto se l’aggiunta/modificazione di elementi e logiche possano portare qualcosa di positivo, anche se differente.

Di fronte a molti oggetti di pregio, ovviamente il problema non si pone. Il loro valore giustifica, senza bisogno di alcuna ulteriore discussione, la conservazione totale, anche limitandosi alla possibilità di sola pura contemplazione di quanto il passato ci ha consegnato e noi abbiamo il dovere di trasmettere al futuro.

Ma di fronte a un panorama come i nostro italiano, di migliaia e migliaia di episodi, magari di qualità più sommessa ma diffusa, il più delle volte di proprietà privata o in carico ad un Pubblico sempre meno dotato di risorse, i termini del problema possono diventare brutali.

Il maggior nemico degli edifici antichi è l’impossibilità di mantenerne la vitalità, in funzione anche della giustificazione economica degli sforzi che si fanno per difendere il bene.

Allora la domanda diventa “cosa sei disposto a perdere”?.

Non vuol dire necessariamente accettare un bilancio passivo tra conservazione e utilizzo. Vuol dire semplicemente crearsi una gerarchia, un ordine di priorità. Sacrificare il minimo per salvare il massimo.

Il terremoto e successiva (tardiva) necessità di ricostruire ed adeguare gli edifici per il futuro è stato l’esempio più drammatico nella storia recente, ma, anche limitandosi ai temi qui trattati, il progettista viene posto di fronte a scelte altrettanto estreme.

Sempre schematizzando, questa volta in modo estremo, alcune delle situazioni (ed opportunità) ricorrenti negli interventi su edifici preesistenti sono:

Esistono poi altri casi particolari, anzi è meglio tenere sempre presente che ogni edificio vecchio o antico è una storia a sé e spesso in un edificio ci sono più storie compresenti.

Le considerazioni progettuali e le ricadute operative che si presenteranno come esempi riguardano varie scale e vari contenuti: dalla dimensione territoriale ed insediativa, al layout distributivo, sino al dettaglio dell’elemento costruttivo e della stratigrafia del pacchetto tecnologico.

Il punto di vista è quello dell’architetto, nella convinzione che gli impianti non abbiano solo una declinazione strettamente tecnologica (cioè una presenza nascosta), ma anche una ricaduta strutturale e distributiva che investe le altre funzioni dell’organismo edilizio (circolare, abitare, lavorare, ecc.) ed un proprio quoziente estetico.

Ciò pone in primo piano la necessità di una progettazione integrata, in cui tutte le figure specialistiche (strutturista, architetto, impiantista) agiscono a stretto contatto sin dalle prime fasi decisionali.

Non va inoltre dimenticato (già dalle preventive fasi di conoscenza), il ruolo determinante degli strumenti di diagnostica, anche non distruttiva. Gli strumenti (termografie, endografie, indagini soniche, indagini storico-documentali),  e quindi gli specialisti che se ne occupano, forniscono i primi elementi per individuare le risorse nascoste dei fabbricati.

Ciascuno di questi aspetti è esemplificato nelle schede che seguono, riferite ad esperienze personali di diversa entità e contenuto. Per necessità di sintesi, si espongono qui soltanto gli esiti progettuali e di cantiere, omettendo la parte (fondamentale) di conoscenza preliminare dei fabbricati, che potrà essere oggetto di future trattazioni.

I temi non trattano solo impianti elettrici e meccanici in senso stretto, ma diverse casistiche in cui sia stato necessario collocare una “installazione tecnologica” in un edificio storico o comunque preesistente. Analogamente, non vengono solo descritti interventi puntuali, ma il discorso si allarga anche alla compatibilità nel contesto urbano antico.

Ciò perché la trattazione che segue sicuramente non ha la pretesa di essere conclusiva: vuole essere una indicazione di approccio metodologico applicabile anche ad altre situazioni.

Grazie alla presenza di un Consorzio di Esercenti particolarmente sensibile ed attivo, Via d’Azeglio, la prima (nel tempo) e più pregiata (nella qualità di offerta) strada pedonale del centro storico di Bologna, è spesso teatro di eventi all’aperto che arricchiscono la passeggiata commerciale.Pur trattandosi di situazioni temporanee, la loro frequenza richiede dotazioni (luce, acqua, diffusione sonora, addobbi festivi, ecc) in parte transitorie, col doppio costo e disagio del montaggio/smontaggio, ed in parte sedimentate in modo estemporaneo e non programmato.

Il tema dell’inquinamento del paesaggio urbano con segnaletiche, arredi, cablaggi, è particolarmente delicato, perché cresce in modo subdolo e impercettibile, sino a quando l’”incrostazione” di elementi sovrapposti non è talmente spessa da risaltare in modo negativo.

Allora diventa difficile intervenire su diritti, usi, consuetudini ormai consolidati.

La dotazione impiantistica è una delle maggiori cause di questa perturbazione visiva che da silenziosa diventa un rumore di fondo e poi uno schiamazzo.

La proposta prevedeva la definizione di un cavidotto interrato, a raso delle due facciate di vetrine commerciali contrapposte, da cui emergevano puntualmente elementi dotati di punti presa per le utenze (acqua, luce, dati, diffusione sonora) ed integrati nel disegno orizzontale e verticale delle superfici esterne.

L’intervento sul fronte strada permetteva anche la risoluzione puntuale delle barriere architettoniche sulle soglie dei singoli negozi.

In anni in cui si stava dibattendo ancora il modo per raggiungere gli utenti con le reti web comparse alla fine del decennio precedente (fibre ottiche nelle fognature, realizzazione di nuove reti, potenziamento delle reti telefoniche), il cavidotto prevedeva anche un cablaggio dati che serviva tanto la strada pedonale quanto gli edifici prospicienti.

Gli elementi costituenti i punti presa mutuavano la loro forma dai fittoni e paracarri presenti (in tutto il centro storico ed anche in situ).

I materiali previsti erano quelli già presenti nei contesti pubblici urbani più nobili (granito grigio, granito rosso, pietra d’Istria).

Un’ipotesi più ambiziosa proponeva il riordino all’interno del cavidotto anche dei sottoservizi già esistenti, labirintici ed obsoleti.

A questi elementi permanenti si accompagnava un progetto integrato per manufatti ed arredi mobili (fioriere, sedute, ecc) ed un regolamento volontario per un’immagine coordinata di altre componenti (tende, dehors, insegne, inferriate, segnaletiche, ecc.).

(crediti progetto: anni 2001-2005, Arch. Michele Ghirardelli con Arch. Glauco Gresleri per le componenti mobili di attrezzatura urbana)

Il complesso di Villa Riccitelli, (Img in apertura di articolo) già Rusconi, composto da una villa gentilizia suburbana con annesso oratorio e pertinenze esterne, si presentava completamene avulso dal contesto, perché la nuova trama stradale dell’espansione periferica postbellica era ruotata rispetto alla viabilità originaria di matrice agraria.

Inoltre, la nuova scacchiera di strade aveva “mozzato” la cuspide del parco su cui si affacciava ed orientava la villa.

L’insediamento di una banca al piano ammezzato della villa poneva la necessità di nuove dotazioni, come lo sportello bancomat. Questo doveva essere esterno all’edificio, sia perché la villa era arretrata dal filo stradale (accessibilità del servizio), sia perché all’epoca era frequente la pericolosissima pratica dell’effrazione dei bancomat mediante gas esplosivi (pericolo per l’intero fabbricato).

Questa particolare esigenza funzionale, assieme alla volontà di restituire la corretta relazione tra villa e sue pertinenze, ha portato alla ricostruzione (con un “falso storico” consapevole e filologicamente fondato) di un tratto di recinzione per il giardino.

In questo modo si è riproposto il cancello con colonne sicuramente esistente in origine.

Per quanto la posizione sia arretrata rispetto a quella primigenia, la rotazione rispetto alla strada e la morfologia dei dettagli basata sull’analisi di altre parti superstiti in loco e di ville coeve nei dintorni, hanno ricollocato la villa rispetto al suo viale assiale (la cui esistenza era testimoniata dalla presenza di una scala “a forcipe” sull’accesso principale, che faceva a sua volta presupporre un’aiuola ellittica frontale).

Lo sfalsamento di due tratti del nuovo muro di cinta provvede lo spazio necessario per il locale bancomat, senza contraddire l’assetto descritto.

Sarebbe interessante descrivere anche l’estrema versatilità dell’impianto distributivo della villa (classico sistema tripartito con loggia centrale passante e sale laterali) e di come questo si sia naturalmente adattato alla nuova attività terziaria. Ci saranno altre occasioni per farlo.

(crediti progetto: anni 2003-2004, Arch. Michele Ghirardelli, P.I. Valentino Fanti)

L’edificio privato nel pieno centro storico di Bologna si presentava fortemente alterato, a causa della conversione ad uso specialistico (un laboratorio farmaceutico e poi una sede di uffici giudiziari) che aveva portato un assetto lineare a triplo corpo distributivo disposto parallelamente al fronte strada, o addirittura ad open-space.

Era però ancora leggibile l’originaria suddivisione in quattro lotti aggregati (case a schiera medievali successivamente rifuse). Il ripristino di tale sviluppo distributivo in profondità (ortogonale al fronte strada e disposto in profondità) ha consentito il recupero della logica fronte/retro con affacci contrapposti e presenza di corti e cavedi interni.

Lo stesso meccanismo è stato riletto in chiave moderna, individuando (oltre alle chiostrine originarie) una serie di “pozzi” verticali ove corressero i principali condotti (montanti impiantistiche, canali ventilazione meccanica controllata, cappe aspirazione cucine, scarichi). In questo modo le facciate rimangono libere per le finestrature necessarie alla corretta esposizione degli ambienti principali.

Tutti i cavedi  e vani impianti sono facilmente ispezionabili. Analogamente, si definisce una serie di locali tecnici posti sempre nelle zone cieche e fruibili dalle parti comuni, senza necessità di accesso ai singoli alloggi.

In questo intervento è particolarmente evidente come la componente impiantistica costituisca un “nuovo abitante” con proprie esigenze spaziali (spessore pacchetti orizzontali e verticali, passaggi impianti, locali tecnici).

L’intervento ha portato da un fabbisogno precedente di 183 KWh/mq/anno per l’involucro e 99 KWh/mq/anno per gli impianti, rispettivamente a 13 KWh/mq/anno e 12 KWh/mq/anno.

È stata eliminata una caldaia a gasolio soggetta a prevenzione incendi. Tutto l’edificio è alimentato elettricamente (da rete pubblica e da 75 mq di pannelli fotovoltaici). I pannelli solari termici provvedono in larga parte alla parte termosanitaria.

I precedenti valori “tecnici” tradotti in termini economici significano che uno dei nuovi alloggi, di circa 200 mq disposto su due livelli di cui uno al sottotetto, ha avuto nel primo anno di esercizio (cioè mentre gli utenti non erano ancora addestrati nell’uso della “macchina”) una bolletta energetica complessiva di 1400 euro comprensiva di tutti i consumi (illuminazione, forza motrice, impianto termico estate inverno compresa ventilazione meccanica controllata, produzione acqua calda, fornelli a induzione installati in totale sostituzione di quelli a gas).

(crediti progetto: anni 2012-2016, Arch. Michele Ghirardelli- Studio E2project Engineering/Ing. Paolo Veggetti, Ing. Giacomo Tricoli)

L’edificio privato lungo la viabilità storica di adduzione al centro di un nucleo della provincia bolognese, era praticamente immutato dalla sua realizzazione nel 1926.

L’assetto distributivo tripartito e le tecnologie costruttive, per quanto datate e declinate secondo i mezzi modesti caratteristici delle cooperative di edificazione dell’epoca, avevano un sapore ed un’efficacia che valeva la pena di comprendere e interpretare.

Per molti aspetti l’intervento è analogo ai due precedentemente illustrati, ma il punto fondamentale non era il ripristino, quanto il mantenimento di una configurazione con un proprio senso e “sapore”.

L’individuazione di cavedi verticali e controsoffitti orizzontali nella loggia centrale passante permette di inserire tutte le dotazioni compreso un impianto di ventilazione meccanica controllata. L’adozione di fodere impianti risolve l’efficienza energetica e consente l’adduzione impiantistica senza tracce nocive sulle murature portanti e senza caricare i solai intermedi.

(crediti progetto: anni 2017- 2018 cantiere in avviamento, Arch. Michele Ghirardelli- Studio E2project Engineering/Ing. Paolo Veggetti, Ing. Fabrizio di Francescantonio, P.I. Ivan Sgargi)

Casa Bufalini nel pieno centro storico di Cesena era frutto di consistenti e stratificate riorganizzazioni e alterazioni nei secoli, sino ad inglobare l’abside di una chiesa scomparsa.

Il contrasto geometrico tra curva dell’abside e ortogonalità dei muri successivi (ragionamento in pianta), assieme allo sfruttamento dei riempimenti di rinfianco delle volte (ragionamento in sezione) hanno permesso di individuare locali tecnici e passaggi delle condotte per un nuovo impianto di ventilazione meccanica controllata.

L’esiguità ed articolazione degli spazi a disposizione hanno comportato in fase di progetto la modellazione grafica tridimensionale degli impianti, necessari per la funzione pubblica che restituirà nuova vita al complesso precedentemente semi-abbandonato.

(crediti progetto: anni 2017- 2018 cantiere in corso, Arch. Michele Ghirardelli- Studio E2project Engineering/Ing. Paolo Veggetti, Ing. Giacomo Tricoli, P.I. Ivan Sgargi. Proposte migliorative al progetto a base pubblica gara)

L’Oratorio di San Filippo Neri a Bologna fu costruito nel 1734. Le esigenze liturgiche, legate in particolare all’utilizzo della musica corale ed organistica durante le funzioni, generarono un tipico assetto che vede un sistema di deambulatori e cantorie attorno all’aula unica principale.

Questa opportunità era già stata colta dall’Architetto Pierluigi Cervellati in un importante restauro a fine degli anni ’90 del novecento, che convertì il complesso ad auditorium. Le dorsali impianti si collocarono infatti in questi “spazi cuscinetto” perimetrali alla grande aula unica centrale.

Analogo discorso riguardò la sezione dell’edificio: la presenza di un grande sottotetto sopra le volte dell’aula consentì la collocazione e distribuzione del voluminoso sistema di riscaldamento-raffrescamento e ventilazione.

Tale sistema, però, funzionava a caduta, rivelandosi insufficiente causa la necessità di spingere l’aria verso il basso partendo da una notevole altezza. Ciò penalizzava il benessere degli utenti (il moto d’aria non era sufficiente ad eliminare la sensazione di caldo-freddo irraggiata da pareti e pavimento), l’efficienza energetica e la qualità acustica (necessità di movimentare grandi volumi d’aria spinti a forte velocità).

L’intervento di riqualificazione energetica del 2013 ha riconfermato l’utilizzo degli “spazi cuscinetto”, ma l’inserimento di un sistema radiante a pavimento ha consentito di ridurre il grande impianto ad aria alla sola funzione di purificazione per il benessere respiratorio, abbattendo velocità dei flussi, rumori, consumi (oltre 40% in meno, risultato migliorabile quando l’utilizzatore avrà preso totale dimestichezza con la gestione del nuovo impianto a bassa inerzia, molto diverso dal “pronto effetto” del precedente impianto a aria), e depotenziando la caldaia con eliminazione della necessità di Certificato Prevenzione Incendi della stessa.

L’eliminazione della funzione termoregolatrice ha inoltre permesso la riduzione della dimensione delle unità esterne, già opportunamente collocate in una terrazza in falda ben integrata architettonicamente, ma comunque ubicata in un contesto (centro storico ed edificio antico) delicato.

(crediti progetto: anni 2011-2013, Arch. Michele Ghirardelli- Studio E2project Engineering/Ing. Paolo Veggetti, P.I. Ivan Sgargi)

L’installazione del pavimento radiante, ha permesso di depotenziare fortemente l’impianto ad aria e di accrescere il benessere termoigrometrico, respiratorio ed acustico.

Il pavimento dell’aula posava su un sistema di volte con sottostante piano interrato, che era stato danneggiato da un ordigno nei bombardamenti del 1943. Nel dopoguerra fu demolito l’intero solaio voltato tra piano interrato e terra. Il restauro del 1997, dopo un lungo abbandono dell’edificio, aveva ricostruito le volte curando filologicamente l’aspetto esteriore, ma nel corpo dei riempimenti si trovavano un massetto ed un rinfianco in alleggerito di polistirolo. La pavimentazione in cotto era pregevole, esteticamente armonica, ma del tutto nuova.

Questi due strati erano quindi totalmente sostituibili.

Mancava solo lo strato intermedio in cui “infilare” il pavimento radiante.

La difficoltà era notevole: gli spessori alla chiave delle volte erano esigui e per originaria conformazione da un estremo all’altro dell’aula c’erano nove centimetri di dislivello rispetto all’orizzontale.

Si è scelto quindi un pavimento radiante sottile.

Si è combattuto metro per metro per stendere i nuovi massetti coi limiti di livellamento e spessore suddetti.

Poi, dopo una ricerca e sperimentazione presso tre delle maggiori fornaci regionali di laterizi, si è prodotto ad hoc un tipo di pianella in cotto a spessore ridotto, perfettamente conforme nelle altre due dimensioni al modulo bolognese tradizionale e selezionato nelle argille d’impasto sia per la resa estetica, sia per la resistenza meccanica (alta frequentazione di pubblico).

Il sistema radiante necessita giunti di dilatazione.

Questi sono stati combinati col disegno di posa, che suddivide l’aula in quattro campi centrati sulla lapide marmorea centrale. Questo disegno è un’invenzione rispetto al precedente pavimento a campo unico, ma, come detto, anche quest’ultimo era una ricostruzione.

La risoluzione estetica di questa necessità tecnica è comunque coerente con l’architettura, basandosi su altri esempi simili coevi.

Su oltre quattromila pezzi di pavimentazione montati, dopo cinque anni di utilizzo solo tre hanno mostrato problemi, imputabili non tanto alla difficoltà di posa e allo spessore, quanto al fatto che volutamente si  è adottato un impasto argilloso semiartigianale ragionevolmente morbido, non troppo raffinato e non troppo ferroso (per assorbire la successiva inceratura) ed una cottura non eccessiva (per ottenere la giusta tonalità) come dettavano le esigenze filologiche ed estetiche di restauro.

Nei punti critici di passaggio delle tubazioni, ove lo spessore disponibile (tolti massetto, tubi e pavimento) concedeva meno di un centimetro, si è inventato un accorgimento puntuale per proteggere da schiacciamento gli impianti. Sopra al tubo e prima del montaggio del pianella, si è steso uno strato di colla e si è appoggiata, pressandola, una lastra di lamiera microforata. La colla trafila attraverso i fori della lamiera e fa corpo unico per l’adesione delle pianelle. La lamiera ripartisce i carichi da calpestio.

Palazzo Pepoli Vecchio, originatosi nella Bologna duecentesca dall’accorpamento di edilizia minore preesistente occupante un intero isolato, si presentava come un grande palazzo fortificato con vasti cortili interni.

Prima di divenire, nel 2014, Museo della Città, è stato sede della mensa con cucina per il personale di un importante gruppo bancario, arrivando a servire circa duecento coperti al giorno preparati sul posto.

Una cucina industriale non è certo l’uso più compatibile che si possa immaginare.

Tuttavia, l’assetto distributivo ben si sposava con alcune esigenze tipiche dell’attività.

Il piano terra presentava uno sviluppo lineare, tipico dell’epoca e della funzione del palazzo antico. Si trattava infatti di uno dei bracci di fabbricato articolati attorno alle grandi corti centrali, in analogia a quanto succede anche negli antichi edifici conventuali, oltre che nei palazzi gentilizi, con due lunghe “maniche” che terminavano in una grande sala con pregevoli volte.

Nelle mense con cucina di grande portata, il ciclo di produzione che dal prodotto fresco arriva al piatto servito in tavola (stoccaggio-lavaggio-preparazione-cottura-mescita) presuppone due flussi lineari che per ragioni igieniche non devono mai incrociarsi: quello dello sporco e del pulito, da cui si dipartono le linee dei prodotti finali (pasto da consumare) e dei sottoprodotti (imballi e contenitori esausti, scarti di lavorazione, stoviglie e tovaglierie sporche, resti del pasto, reflui di lavaggio).

La rilettura rispettosa del lay-out originale ha consentito la collocazione dell’impianto praticamente senza nessuna demolizione di parti originarie, ma solo eliminando alcune superfetazioni e riaprendo alcune porte preesistenti.

Su una delle “maniche” (quella più interna, una sequenza di piccoli locali concatenati ed affacciati su cortili tergali) si è attestata la cucina a flusso continuo in linea. Sull’altra “manica” più esterna si è individuato il percorso per il pubblico.

In mezzo una catena di locali per deposito e produzione pasti. Alle due testate iniziali delle “maniche”, rispettivamente, l’accesso merci e l’accesso pubblico (separati) attraverso un cortile collegato alla strada. I due percorsi terminavano nella grande sala, dove la linea di produzione confluiva in un banco mescita per i pasti serviti e l’afflusso del pubblico trovava i tavoli per il consumo.

Questa la soluzione in pianta.

In sezione, la presenza di un interrato (dove addirittura scorre un canale ipogeo!) ha permesso l’intercettazione di tutte le calate dei reflui con realizzazione di una nuova linea fognaria.

Si tratterà in una scheda successiva il tema dello sfruttamento degli interstizi per alcuni tratti impiantistici cruciali.

(crediti progetto: anni 2000- 2001, Arch. Michele Ghirardelli- P.i. Mario Guarnieri, P.I. Paolo Alberti)

Un componente fondamentale, spesso problema massimo nelle cucine industriali, è l’estrazione dei fumi di cottura, che richiede cappe di grande portata e quindi canne di grande diametro il più possibile ad andamento regolare.

Nel presente caso, una mappatura paziente del fabbricato ha rivelato l’esistenza di un enorme camino nascosto. Era scomparsa tutta la parte decorativa esterna (cappa, bocca, cornice, trave, mensoloni probabilmente decorati e quindi riutilizzati altrove), ma rimaneva in spessore di muro una grande canna fumaria che sfociava sul coperto.

È stato il passaggio risolutivo perché ha consentito l’installazione di un canale di estrazione che grazie alla sezione ellittica elimina i reflussi e vortici negli angoli morti. Negli ordinari canali rettangolari, infatti, gli angoli costituiscono praticamente sezione persa e nello stesso tempo un canale circolare capace di contenersi in spessore di muro non avrebbe avuto diametro utile sufficiente.

Moltissimi edifici antichi, residenziali e non, erano dotati di una grande quantità di canne fumarie. Il concetto era che in ogni stanza abitata ci fosse un focolare o almeno una canna calda che attraversasse. Solo in area veneto-ferrarese questi camini sono in evidenza, perché la scarsa portanza dei terreni palustri portava all’alleggerimento (e quindi assottigliamento dei muri). Altrove, e nel caso particolare nell’Emilia a sud del Po le canne erano occultate nello spessore dei muri.

Come accennato, le indagini diagnostiche non distruttive in questo caso sono importanti per ritrovarle, perché spesso anche il comignolo sopra il tetto è stato rimosso con l’abbandono degli impianti.

Queste canne, spesso di importante sezione, possono diventare pozzi impianti (cappe di  estrazione, mandate e riprese ventilazione meccanica, calate e montanti tubazioni/ scarichi/dorsali elettriche).

Il tema è interessante, perché riporta alla questione dei benefici/costi.

Infatti ciò che è favorevole per l’impiantista e per l’architetto, diventa problematico per lo strutturista a causa delle discontinuità murarie che questi vuoti lineari costituiscono sui maschi murari.

Inoltre le canne in nicchia sono ponti termici e acustici lineari e possibili vie di propagazione fumi e incendi.

Quindi le soluzioni dovranno tenere conto di correttivi per soddisfare tutti cinque i capi del problema (impiantistico-di integrazione architettonica-strutturale-termico-acustico-antincendio). Ma si è detto in principio che il percorso progettuale deve avere un approccio corale dall’inizio alla fine.

Il complesso Villa Pezzini, già Casino Modena, nel cratere del sisma modenese, è costituito da due edifici rurali e da un villa con giustapposta torre cinquecentesca, collocati in un parco storico. Sin dalle origini si attesta la presenza di vari fabbricati, che nel tempo hanno assunto una configurazione apparente di dimora rurale patrizia con barchesse (ingannevole, in quanto la villa con torre aveva un’autonomia di genesi e di utilizzo, rielaborata sino alle soglie del millenovecento).

All’interno della villa i crolli da sisma e le indagini diagnostiche hanno rivelato la presenza di massetti a secco, solai con intercapedini, o addirittura di solai sovrapposti (dove quello visibile sostituiva staticamente il precedente, al fine di preservare i cassettoni dipinti all’intradosso).

Particolarmente curioso l’utilizzo di carbonella di fascine di legna di vite come massetto su cui allettare a malta le pianelle di pavimentazione in cotto. Un antesignano dei massetti a secco, che utilizzava un materiale ideale: leggero, inalterabile, inerte, asettico, igrometricamente attivo, compatto e stabile.

L’uso della carbonella come massetto è attestato sin dall’epoca etrusca soprattutto controterra ed in presenza di umidità.

Nel caso particolare ha un fascino speciale. Viene usato in un solaio intermedio (ma non si esclude di trovarla anche controterra) e fa pensare a un cantiere a chilometri zero in un territorio dove le comunicazioni erano difficili. La fascina di legno di vite infatti è un combustibile ideale per le fornaci da calce e mattoni. Sul posto ci sono depositi alluvionali di ciottoli calcarei e di buona argilla, e nei terreni pertinenti alla villa si coltivava l’uva. Il cerchio si chiude: forse gli stessi materiali di costruzione furono realizzati in situ, e le scorie riciclate.

Con una ricerca presso produttori locali di ambito diverso dall’edilizia, si è reperita la carbonella che verrà mantenuta o ripristinata.

Le intercapedini e i massetti a secco ospiteranno i tratti di distribuzione ai punti presa dei nuovi condotti impiantistici (elettrici, idrici, termici).

(crediti progetto: anni 2012- 2018 cantiere in corso, Arch. Michele Ghirardelli- Ing. Emanuele Tozzoli, Ing. Fabrizio di Francescantonio, P.I. Ivan Sgargi)

Tutti i temi descritti sopra sono tecnologicamente complessi, ma relativamente “facili” sotto altri aspetti. Infatti, intervenendo su beni culturali o su edifici residenziali privati (ove per scelta propria personale o per strategia commerciale si mira comunque a un risultato alto) è più probabile che le aspettative della committenza e obiettivi fissati concedano margini operativi al progettista.

Dal punto di vista quantitativo, oggi, la vera sfida è sull’edilizia ordinaria, magari a destinazione sociale.

Per questo si presenta un’ultima scheda che riguarda una tipica “palazzina” costruita negli anni 50-60 del novecento, con le tecniche medie allora correnti. In pratica, la stragrande maggioranza dei nostri desolanti paesaggi urbani da riqualificare.

Un fabbricato plurifamiliare della periferia bolognese, condotto da una Fondazione bancaria con intenti di sostegno sociale.

La collocazione in prossimità di una linea ferroviaria, e le caratteristiche dei pacchetti murari e di copertura comportavano criticità termiche e acustiche.

La tipologia di utenti, particolarmente sensibile, richiedeva di svolgere l’intervento senza allontanare gli abitanti dagli alloggi.

Il punto risolutivo è stato lo studio di un serramento (o meglio due serramenti tipo, finestra e porta-finestra) che potessero essere montati prima di rimuovere gli infissi preesistenti.

Ciò è stato possibile sia grazie all’applicazione del cappotto esterno, che ha concesso maggiori spessori del pacchetto murario e quindi la possibilità di trovare un filo diverso per il montaggio degli infissi, sia grazie all’adozione di un falso telaio integrato che rendesse indipendente l’esecuzione finita del cappotto dal montaggio delle finestre, sia dal particolare profilo del serramento che lo rende uno dei modelli più tecnologicamente avanzati esistenti sul mercato, tanto è vero che per anni consecutivi ha vinto ogni premio del settore.

I vantaggi operativi del falso telaio sono ampiamente noti.Dal punto di vista termico e di tenuta all’aria risolvono il punto critico telaio-muratura (quanti ottimi infissi si sono visti montare male negli ultimi anni!).

Dal punto di vista produttivo eliminano la variabile dell’errore dimensionale (quanti litigi in cantiere e martellate dell’ultimo minuto abbiamo visto di fronte a fori troppo esigui o fuori piombo!).

Dal punto di vista del cronoprogramma rende quasi totalmente indipendente la finitura delle opere edili dalla fornitura finale dell’infisso. Il falso telaio viene consegnato in due settimane, l’infisso vero e proprio richiede fino a 60 giorni dall’ordine (quanti cantieri fermi abbiamo visto in attesa delle finestre!).

Dal punto di vista dell’efficienza operativa, consente di montare le finestre a secco e all’ultimo minuto, senza esporle per mesi allo stress del cantiere in corso (quanti infissi danneggiati o sporcati abbiamo visto, o viceversa, quanti intonaci e tinteggiature rappezzati dopo la posa finestra!).

In pratica, la sequenza è stata: montaggio dei falsi telai con modifica di soglie e bancali, realizzazione del cappotto spigolato sui fori finestra e sugli imbotti, grazie al profilo del falso atto ad accogliere la rasatura, smontaggio dei vecchi infissi, montaggio dei nuovi infissi.

L’intervento delle maestranze all’interno dei singoli alloggi si è limitato a circa mezza giornata per ogni unità, ed è stato effettuato in presenza degli abitanti.

Ciò ha comportato a monte uno studio millimetrico dei nodi tecnologici e un vero progetto esecutivo dettagliato del cronoprogramma di cantiere, che ha richiesto ben più tempo che non il montaggio materiale.

Fondamentale è stata l’azione coordinata, motivata e competente di tutte le maestranze diverse coinvolte sia per gli infissi sia per le parti edili e di finitura.

La coibentazione degli imbotti ha ridotto parzialmente il foro finestra. Questo è un altro tema importante, perché il problema è ricorrente negli interventi con cappotto ed infisso montato in luce del foro murario, a meno che, sbagliando, non si voglia trascurare l’importantissimo nodo del ponte termico falso-telaio/muro, regalando muffa garantita sul perimetro interno di posa.

Di nuovo, è stato il profilo particolare dell’infisso a garantire che, a minore dimensione del foro finestra, corrispondesse in realtà un’apertura netta apribile ed una superficie vetrata superiore alla preesistente.

Ciò perché il telaio opaco dell’infisso è a scomparsa nella spigolatura del muro coibentato che lo accoglie.

I vantaggi termici sono evidenti. Come è noto, la prestazione di un infisso (Uw) è data dalla combinazione della prestazione del telaio opaco (Uf) con quella del vetro (Ug) e dal rapporto dimensionale che intercorre tra questi ultimi due fattori.

La totale copertura del telaio e quindi l’abbattimento della componente Uf, porta di conseguenza, che la prestazione dell’infisso è costituita praticamente dal valore Ug, che in presenza di vetri performanti è assolutamente migliore.

Ovviamente, si pone il problema estetico: praticamente osservando il foro finestra da fuori si vede solo il vetro. Ma anche in edifici storici, forse, questa soluzione visivamente neutra è migliore rispetto a quegli infissi che, per migliorare la componente Uf e supportare vetri altamente prestanti e quindi di peso notevole, negli ultimi anni hanno visto aumentare fortemente lo spessore di telaio.

Come si vede, in questo caso la miglioria prioritaria da effettuare era sull’involucro trasparente e opaco (finestre e pareti, oltre ovviamente alla copertura e ai ponti termici dei balconi). Risolta quella, gli impianti preesistenti si sono dimostrati ampiamente sufficienti, e l’unico intervento su questi ultimi è stato semplicemente… ridurne il regime!

L’unico altro intervento auspicabile sarebbe stato il controllo dell’umidità, ma avrebbe richiesto costi ed invasività non sostenibili nel quadro economico-operativo prefissato. Comunque, ad oltre un anno e mezzo dall’intervento e con l’andamento del ciclo stagionale 2016-2017-2018 non si sono verificati problemi, grazie allo studio attento dei ponti termici e dei nodi critici.

Rispetto ai contenuti principali trattati quest’ultimo caso operativo descritto è anomalo, ma volutamente e solo apparentemente.

Vuole portare il fuoco sul punto fondamentale con cui chiudere questa trattazione: l’impianto più efficiente e sostenibile è quello che non c’è.

Non vuol dire negare la necessità degli impianti, ma ripensarne sia il ruolo, sia il funzionamento specifico.

Siamo alla fine di un ciclo.

Anche negli edifici storici gli impianti non c’erano o quasi, e l’involucro suppliva come poteva in assenza di sofisticate prestazioni di materiali e componenti.

Spesso erano la massa e il lay-out a difendere il minimo di comfort. Per inciso, questi sono due principi ampiamente recuperati dalla progettazione ambientalmente consapevole e ovviamente con obiettivi molto più alti.

Con l’edilizia del novecento, ci si è disinteressati dell’involucro, tanto gli impianti spinti al massimo avrebbero fornito il soccorso necessario.

Oggi siamo tornati a prestare attenzione al rapporto involucro-impianti.

Il prossimo obiettivo è ottimizzare a tal punto questo rapporto da rendere possibile un ulteriore passo avanti.

Forse allora la soluzione del problema che oggi appare fondamentale (il “caldo” e il “freddo”), diverrà banale e quasi non meritevole di eccessivi soccorsi tecnologici aggiuntivi.

Si tratterà allora di utilizzare gli impianti solo come ultimo correttivo dove realmente irrinunciabile. Oppure, ancora meglio, per scopi altamente evoluti (sicurezza, benessere, raggiungimento di un bilancio energetico zero o positivo).

Speriamo di poterlo raccontare prossimamente, dopo qualche altro progetto e cantiere…

(crediti progetto: anni 2015-2016, Arch. Michele Ghirardelli- Studio E2project Engineering/Ing. Paolo Veggetti)

Fonte immagini: archivio dell’autore e archivio Studio E2project Engineering/Ing. Paolo Veggetti

Architetto libero professionista con studio in Bologna.

Dal 1994 partecipa all’attività didattica e di ricerca del Dipartimento di Architettura di Ferrara. Suoi campi di interesse particolare sono l’efficienza energetica e l’accessibilità verso le utenze deboli, prioritariamente rivolti verso la riqualificazione degli spazi e degli edifici esistenti, e quindi con attenzione verso le valenze storiche, morfologiche e tipologiche dell’ambiente costruito.

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