Climbing for Climbing: «Condizioni dei ghiacciai pietose, la montagna è diventata troppo pericolosa» - CorrierediBologna.it

2022-08-20 06:08:55 By : Mr. Felix Guo

La pioggia di notte fino all’alba sul rifugio Torino del Monte Bianco, a 3.375 metri; un lungo crepaccio longitudinale tra il ghiacciaio del Gigante sul Col des Flambeaux e la cresta rocciosa, sintomo anche di un’accelerata fusione dell’acqua che scende dalla parete: eloquenti segnali dello stato di salute della vetta più alta d’Italia e d’Europa, alcuni degli indizi raccolti nella due giorni (22 e 23 luglio ) del Climbing for Climate 2022 dalla delegazione di ricercatori universitari e alpinisti del Club alpino italiano (Cai). In cordata con loro anche Isabella Morlini, professoressa dell’Università di Modena e Reggio Emilia con delega allo Sport, alla sua prima partecipazione all’evento nazionale promosso dallo stesso Cai e dalla rete delle università per lo sviluppo sostenibile (Rus), giunto quest’anno alla sua quarta edizione per unire l’esperienza diretta a un ragionamento e a una discussione sulle azioni concrete di contrasto al cambiamento climatico, di promozione di un turismo sostenibile, di protezione della biodiversità e di supporto alle comunità sostenibili. Da sempre sportiva nell’anima e grande conoscitrice di quel patrimonio inestimabile che sono le nostre montagne, non ha dubbi sulla serietà della situazione o, come detto in occasione dell’appuntamento al cospetto del dente del Gigante anche dal presidente generale del Cai, Antonio Montani, sulla necessità di un cambio di paradigma nell’approcciarsi ai monti e, più in generale, alla natura. Fors’anche perché il termine emergenza, tanto spesso usato in relazione a situazioni climatiche e fenomeni estremi come quelli degli ultimi tempi, non è più tanto adatto; a fronte di una condizione ricorrente.

Professoressa Morlini, a fine luglio la due giorni di escursioni sul Monte Bianco per il Climbing for Climate. Cosa avete potuto osservare sotto i vostri occhi? «È stata un’esperienza di grande importanza per tutti noi ricercatori universitari in missione che, insieme ai glaciologi del Cai, a rappresentanti di Legambiente e a due alpini dell’Esercito, abbiamo così potuto toccare con mano e discutere sulla condizione attuale del ghiacciaio, di quanto si stia riducendo e di quanto stiano facendo lo stesso anche gli altri ghiacciai italiani. Il primo giorno abbiano fatto un’escursione sul ghiacciaio nero del Miage, la cui definizione “nero” deriva dalla copertura di detriti. Questi, in alcuni punti e a un dato spessore, giocano un ruolo importante nel controllo dei bacini di massa glaciale (a certe condizioni limita l’ablazione, ovvero l’azione di asporto e di trasporto di frammenti di roccia esercitata dalle masse glaciali, ma anche di riduzione della massa di volume di un ghiacciaio per fusione o per sublimazione, ndr). Anche per questo quello del Miage è uno dei ghiacciai meglio conservati. Il secondo giorno, dopo aver passato la notte al rifugio Torino, siamo saliti sul ghiacciaio del Monte Bianco in cordata. L’importanza dell’iniziativa risiede proprio nella sua conseguente possibilità di vedere con i propri occhi, e dunque raccontare, le condizioni dei ghiacciai, condizioni che si possono definire pietose; con riduzioni evidenti, crepacci, fronti che arretrano sempre più, abbassamento delle superfici».

Quali condizioni metereologiche e climatiche avete trovato? «Durante la notte trascorsa al rifugio Torino e la mattina presto, verso le 6, è piovuto. A 3.375 metri. Un altro segnale di quanto il clima stia cambiando: lo zero termico è salito mediamente a 4.000 metri».

Per lei è stata la prima esperienza sul Monte Bianco? «Sì, sono salita su molti altri ghiacciai, ho partecipato a tante altre escursioni alpinistiche ma il Monte Bianco mi mancava. Nel tempo ho comunque potuto constatare un loro progressivo cambiamento, con particolare riferimento a quelli sul Presena, sulla Presanella e a quelli sul gruppo Ortles-Cevedale. Anche in quelle zone, purtroppo, ogni anno si riscontrano arretramenti del fronte e crepacci sempre più ampi. Questa è stata anche la prima volta al Climbing for Climate, al quale ho appunto partecipato in rappresentanza dell’Università di Modena e Reggio Emilia, aderente alla Rus insieme ad altre 14 università. L’auspicio è quello di poter ripetere in futuro; è un’esperienza preziosa alla quale è un onore poter dire di esserci».

Adesso quali altri step prevede il programma? «Ogni anno vi è un appuntamento nazionale in un diverso territorio, ma a latere di questo vi sono anche numerosi altri eventi regionali, a carattere locale, organizzati dalle università aderenti alla Rus. Nel nostro caso a settembre vi sarà un’escursione sugli appennini emiliano-romagnoli per valutare, per esempio, la biodiversità che, se da una parte avrà meno clamore, dall’altra potrà vantare maggior territorialità».

Il disastro della Marmolada cosa dice alla comunità scientifica, relativamente alle attività di monitoraggio ma anche di prevenzione e di azioni concrete? «Da un punto di vista scientifico, il monitoraggio dei ghiacciai è qualcosa di fondamentale, ma credo sia necessario anche un cambio di paradigma nella relazione con essi; un diverso approccio da parte di chi li frequenta quotidianamente. Bisogna tenere conto di una maggior pericolosità della montagna. Ma tutto questo dice anche quanto bisognerebbe avere più a cuore la natura, una maggior attenzione nei confronti di una bellezza fin troppo sciupata. Sembra esserci maggior attenzione alle opere costruite dall’uomo che non a quelle naturali».

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